Medaglia d’oro al merito civile Don David Berrettini, martire della libertà, ha dato la sua vita per la liberazione di un gruppo di suoi parrocchiani presi in ostaggio. Fu cinicamente fucilato dai nazisti il 19 Giugno 1944.
Un sacrificio eroico poco conosciuto, mentre il suo ricordo dovrebbe vivere come un monito ed un insegnamento.
Tratto dal libro di Bartolo Ciccardini “La Resistenza di una comunità”
Pilati racconta l’amara storia di Don David Berrettini, parroco di Marischio, frazione fabrianese sulla strada di Sassoferrato, che per antica tradizione longobardica apparteneva ancora alla diocesi di Nocera Umbra.
Il 19 giugno 1944, un mese prima della liberazione fu lanciata una bomba contro la colonna dei tedeschi in ritirata. Forse ci furono due vittime e per la regola della rappresaglia fu minacciata la morte di 23 ostaggi.
In mancanza di autorità civili nella frazione, i tedeschi comunicarono al parroco l’intimazione a consegnare i responsabili. Il sacerdote si sottrasse all’interrogatorio e fuggì verso Serradica, passando per la strada di montagna che lo portava al suo paese natale, Gualdo ed alla sua Diocesi, Nocera. Si rifugiò presso Don Ermete Frattolini. Che ci lasciò questa testimonianza: “La flagellazione dei suoi parrocchiani fu semplice: per paura di rappresaglie pretesero che il parroco si presentasse, pur sapendo che sarebbe stato ucciso, ed in questa paura lo accolsero al suo ritorno come un vile ed un traditore. Due persone lo accompagnarono al comando tedesco:fu un atto di solidarietà od una costrizione? Solo Dio lo sa. Morì solo, angosciato, martoriato, processato, obbligato a scavarsi la sua fossa. Era la sera del 19 giugno, la notte era appena cominciata ma un terribile temporale si prestò a spegnere ogni luce che non fosse quella dei lampi e dei fulmini. I 23 ostaggi furono liberati e per riconoscenza qualcuno offrì un pranzo ai carnefici. L’ufficiale tedesco che ordinò l’esecuzione era il figlio di Kesserling.”
Sul registro diocesano delle morti, il sacerdote don Sante Romitelli, parroco della vicina San Donato, scrive amaramente: “Ai suoi funerale presero parte soltanto i Sandonatesi, di Marischio nessuno si fece vedere all’infuori dei suoi familiari”.
Una parentesi necessaria
L’episodio della morte di Don David ci introduce ad una necessaria meditazione su un aspetto della Resistenza che ha provocato grandi discussioni, strumentalizzazione polemiche e più rispettabili problemi di coscienza, di cui dobbiamo parlare.
Entriamo con animo sospeso nelle vicende dolorose della guerra civile, cercando di esaminarle con animo giusto, perché vorremmo uscirne da giusti.
Se una potenza estranea o straniera vuole imporre un qualche dominio senza ragione legittima, senza trattato, senza consenso, con la sola legge della forza, la risposta a questa ingiustizia non può essere altro che una resistenza. Il mettere sempre e comunque in difficoltà la forza che pretende quel domino, anche con atti di guerra è legittimo e doveroso. Si può pensare o preferire una opposizione non violenta, ma anche questa è una resistenza e spesso da sola non basta.
Invocare un preteso diritto di rappresaglia, come previsto dal diritto di guerra, è ingiusto sempre ed in particolare in questo caso. Il cosiddetto diritto di guerra ha come scopo dettare alcune regole di civiltà e di umanità alla barbarie della guerra. La pretesa di esercitare la rappresaglia su innocenti non rientra nella sfera di nessun diritto. Se si accetta come legittimo il diritto di rappresaglia si perde ogni possibilità di combattere, di fare resistenza ad una pretesa ingiusta.
Con questo pensiamo che si debba porre terme a pretese illogiche, come il ritenere la rappresaglia legittima, come il dovere o la rassegnazione ad obbedire per timore della rappresaglia, come il pretendere che l’autore dell’atto di resistenza debba presentarsi per evitare la rappresaglia, che significherebbe solo la fine di ogni resistenza e la consacrazione di un dominio illegittimo.
Detto questo con forza e senza tentennamenti sappiamo di non aver risolto tutti i nostri problemi.
L’atto eroico di Salvo d’Acquisto che fu l’inizio della Resistenza fu meritevole di ammirazione e di onore. Evidentemente quel gesto eroico di sacrificarsi volontariamente per gli altri, che si può esercitare in qualsiasi momento della vicenda umana ed ancor più nella sciagura è un atto prezioso. E non solo di umanità, ma anche di resistenza al male.
Ma quel gesto generoso per salvare degli innocenti non riconosce, non giustifica, né rende legittima la rappresaglia Non dimostra che i tedeschi avevano ragione a pretendere vite umane in risarcimento.
Salvo d’Acquisto dimostra con la sua azione quanto sia illegittima la rappresaglia e quanto sia forte il diritto di esistere come comunità libera di coloro, che come difensore di quella comunità, egli ha salvato. Ma è proprio per questo che quel gesto non è un atto dovuto per obbedire alla ingiusta rappresaglia, ma un atto libero e volontario per protestare e testimoniare resistenza ad un illecito e vile dominio.
Dobbiamo dare una valutazione più attenta degli atti di resistenza. Gandhi ci ha insegnato che si può fare una resistenza anche rinunciando ad atti di violenza. Ed infatti guardando con più attenzione ci rendiamo conto che la maggioranza degli atti che formano tutti assieme una resistenza al dominio ingiusto, sono atti non violenti, ma atti di amore. Nascondere i perseguitati, avere pietà per i morti ed onorarli di santa sepoltura, dar da mangiare ai perseguitati, assistere i fuggiaschi dalle prigioni, consolare le vittime, riaffermare la dignità e la forza morale degli oppressi, sono tutti atti non violenti, che costituiscono la più profonda e veritiera forza della resistenza, senza la quale non può esserci neppure l’azione armata.
Ed a questo punto può esserci anche una valutazione di merito sulla opportunità e l’intelligenza, e quindi sulla moralità di alcune azioni, che non illegittime in sé, furono malamente calcolate, con leggerezza giovanile, o con arroganza incosciente, senza una attenta valutazione dei costi umani, a cui ogni forma di resistenza, che non voglia diventare anche lei barbarie, deve rifuggire.
Ed ora veniamo al dramma di Don Davide Berrettini.
Che Don Davide avesse avuto una umana e comprensibile paura, non toglie nulla al valore del suo sacrificio. Era innocente ed aveva il diritto di cercare di salvarsi. Si convinse che come sacerdote non avrebbe potuto abbandonare la sua comunità e tornò sapendo di dover morire.
Che i tedeschi lo martoriassero sapendolo innocente e infierissero su di lui è delitto. Che a pretendere il suo sacrificio per salvare se stessi, fossero i suoi parrocchiani è parricidio.
Che i suoi beneficati celebrassero con gli assassini lo scampato pericolo è orribile ed abominevole.
Per la loro ferocia Don David subì, oltre alla morte il ben più grave martirio del tradimento e della solitudine, inviso ai nemici perché amico dei partigiani ed inviso ai suoi parrocchiani perché poco sollecito a morire.
Nella sua umanità debole, martoriata c’è qualcosa di più. E’ la solitudine della croce. “Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?”.
Piccola biografia
Don David nacque il 9 giugno 1908 alla periferia di Gualdo Tadino, da una modesta famiglia colonica abitante nella zona di via dei Cappuccini, che poi si trasferì a Palazzo Ceccoli; fu ordinato sacerdote il 24 giugno 1933; il Dr. Angelo Lucarelli e il maestro Italo Giubilei, recentemente scomparsi e che lo conobbero di persona, ne hanno descritto allo scrivente la figura di un sacerdote mite e zelante nella educazione dei ragazzi al canto polifonico, seguendo l’esempio di mons. Raffaele Casimiri, che in quegli anni guidava al successo la Polifonica romana sugli scenari di tutto il mondo.
Dal 1 agosto 1936 fu nominato parroco della parrocchia di Marischio alla periferia di Fabriano (allora parte dalla diocesi di Nocera e Gualdo), ove fu travolto nel turbine della guerra: la mattina del 19 giugno 1944 presso Marischio, un lancio di bombe da parte dei partigiani sui tedeschi in ritirata provocò un rastrellamento da parte degli stessi che irruppero nella canonica alla ricerca di un “capo”, invitando poi Don David a seguirli per interrogarlo; egli, spaventato per l’ingiunzione di rintracciare in giornata gli autori dell’attentato, con il pretesto di vestirsi si sottrasse all’arresto dandosi alla fuga.
I tedeschi che nel frattempo avevano preso in ostaggio 19 parrocchiani, intimarono che, se il parroco non si fosse presentato entro le 20, sarebbero stati fucilati ed il paese sarebbe stato dato alle fiamme.
Don David, ormai in salvo sulla strada di Gualdo Tadino sulle pendici del Serrasanta, quando fu raggiunto ed informato dell’accaduto dal parroco di Serradica, Don Ermete Scattoloni, decise immediatamente di tornare indietro e presentarsi ai tedeschi per ottenere la liberazione degli ostaggi che, nel frattempo erano stati spostati a San Donato Marche ed erano saliti a 23; rientrato a Marischio, si recò di persona a San Donato dove fu incarcerato dal tenente Kesselring (figlio del tristemente noto generale).
Liberati gli ostaggi, uno dei quali invitò a pranzo i carcerieri a casa propria per il giorno successivo, Don David fu sottoposto ad interrogatorio dal carceriere che, non soddisfatto da una interprete locale nata in Lussemburgo che parlava tedesco e che conoscendo Don David di persona cercò inutilmente di scagionarlo, preannunciandone alla stessa interprete la condanna, ne fece venire uno di fiducia da Sassoferrato.
I particolari dell’interrogatorio seguito non sono noti: ma alle 22 il prigioniero fu prelevato dal locale in cui era custodito da un tenente austriaco di nome Rickard (non se ne è saputo il cognome) accompagnato da quattro soldati e dall’interprete, e condotto in fondo ad una scarpata, circa 150 metri lontano dal centro abitato, fu costretto a scavarsi la fossa, sotto l’infuriare di un violento temporale con tuoni e lampi.
Un lavoro improbo, anche per le condizioni fisiche e psichiche del condannato che abbandonò il piccone raccogliendosi in preghiera, mentre l’interprete alla meglio completò l’opera; Don David si rivolse con fermezza agli aguzzini “sono pronto!”, cadendo poi crivellato dalle raffiche di mitra sparategli nella schiena.
Gli esecutori dell’assassinio ingiustificato (non è possibile in esso ravvisare gli estremi della rappresaglia dal momento che nell’attentato della mattina non c’erano state vittime fra i tedeschi), terminata la loro macabra operazione, dopo averlo derubato del portafogli, gettarono il corpo della vittima nella fossa, infierendo su di esso con colpi di badile nel tentativo di sotterrarlo frettolosamente e di coprirlo alla meglio con zolle di terra, per rientrare poi nella casa parrocchiale adibita a comando, infangati e fradici di pioggia. Uno di essi raccontò di aver ucciso un cane rognoso ed inopportuno, gli altri andarono il giorno seguente al pranzo cui li aveva invitati uno degli ostaggi liberati.
Il corpo sarebbe stato riscoperto casualmente l’indomani da un ragazzo il quale ne diffuse la notizia che il parroco di San Donato comunicò il giorno seguente ai familiari, invitandoli a provvedere per il recupero della salma. Alla pietosa operazione parteciparono alcuni abitanti di San Donato e, celebrate le esequie, il corpo fu inumato nel cimitero di San Donato. Al funerale di Don David non partecipò nessuno dei suoi parrocchiani; la salma nell’ottobre del 1944, per iniziativa di mons. Vittorugo Righi, fu traslata al cimitero di Gualdo Tadino, presso la tomba della compagnia dei Preti.
Questa è la storia di Don David; le passioni e divisioni politiche del momento, sia nel fabrianese che a Gualdo Tadino, non erano le ideali perché il sacrificio del martire fosse riconosciuto e valorizzato; il suo nome sarebbe stato aggiunto solo in secondo tempo sulla lapide in memoria dei caduti per la Resistenza sulla piazza di Gualdo Tadino e solo più tardi al suo nome fu intestata una via, sia a Gualdo Tadino che a Fabriano, poi il silenzio e l’oblìo, mentre a San Donato il luogo dell’eccidio diventava oggetto di venerazione.
Solo nel 1994 il Sindaco di Fabriano Antonio Merloni, dopo 50 anni, raccogliendo doverose sollecitazioni chiese alla Presidenza della Repubblica il riconoscimento della medaglia d’oro al merito civile, che è stata concessa con decreto del Presidente della Repubblica del 29 novembre 1995.
(tratto da: http://www.ilserrasanta.it/200804/01dondavid0804.htm)
Per conoscere meglio questa storia, segnaliamo il bel libretto di Valerio Anderlini: “Un Eroe da conoscere. Don David Berrettini. Medaglia d’oro al merito civile”. Edizioni Accademia dei Romiti. Gualdo Tadino”.
Commento di Aldo Crialesi al libro di Don Abramo Tenti “Sacrificio eroico, Don David Berrettini, “Editore: Arti grafiche Gentile Fabriano, 1996.
Don Berrettini non ha ottenuto ancora piena e completa giustizia, non ha ancora quella diffusa ammirazione e venerazione che il suo sacrificio eroico merita.
Andate a parlare con la gente di Fabriano e sentite che cosa dice di lui: che é stato una vittima, una povera vittima, non un eroe.
Non per nulla a Fabriano in quello che può essere chiamato il sacrario della patria, nel -Loggiato S. Francesco, c’é una lapide che ricorda i nomi dei cittadini vittime della ferocia nazifascista (le “vittime civili”) e tra questi nomi, in ordine alfabetico c’é anche quello di Berettini ( con una “r” sola) Don David di anni 36. Uno dei tanti travolti inconsapevolmente dalla furia della guerra. Ed anche a Gualdo non é che uno dei 21 caduti ricordati (quasi per ultimo) nella lapide in piazza Martiri della Libertà, anzi uno dei 15 nomi che fanno corona a quelli dei quattro partigiani fucilati nella piazza stessa.
Ci son voluti più di 50 anni per ottenere il riconoscimento della Medaglia d’oro alla sua memoria. Ma quanti sono a Gualdo e a Fabriano sanno che Don David Berrettini é Medaglia d’Oro?
Il fatto é che Don Berrettini non era un partigiano, né un uomo della Resistenza, non apparteneva cioé a quell’antifascismo che a buon diritto esaltava ed esalta i suoi caduti, i suoi eroi. Era soltanto un prete di campagna, mite, umile. Era, anzi, per carattere, quello che si potrebbe dire un antieroe, più simile a un Don Abbondio che a un Padre Cristoforo, un uomo che aveva paura e lo dimostrava. Questo era Don David: un prete timido, introverso, amante della musica e dei libri. Ha un animo da poeta, in un aspetto ancora da ragazzo; non era il tipo ideale per fare da guida al piccolo gregge della sua parrocchia, specialmente nel terribile frangente del passaggio del fronte.
Ma questo prete timido e pauroso, messo di fronte a una prova irrecusabile e tremenda, ebbe il coraggio per affrontarla, un coraggio insospettatamente grande ed eroico che l’ha portato a scegliere la via del Calvario, il martirio. E come deve chiamarsi se non eroe chi trasforma la paura in coraggio, chi mette a repentaglio, anzi sacrifica la sua vita, coscientemente per il bene degli altri? È più eroe chi vince la paura che lo fa tremare, di chi affronta i pericoli da incosciente, di chi mette in gioco la sua vita solo per dimostrare di aver coraggio?
Il coraggio che non aveva gli é venuto, insperato, dalla sua coscienza sacerdotale, dalla consapevolezza che il pastore deve sacrificarsi per il suo gregge. Nell’ora del la prova tremenda gli deve essere tornata alla mente, e non solo alla mente, quanto letto e meditato negli anni della sua formazione al sacerdozio: gli esempi dei santi e dei martiri, le meditazioni e le promesse da lui fatte. Deve aver capito che l’essere sacerdote in quelle circostanze, gli dava il dovere di consegnarsi ai feroci tedeschi, fino alla morte.
Don David era ormai in salvo a Serradica, avrebbe potuto raggiungere Gualdo e sottrarsi definitivamente alle ricerche dei suoi inseguitori. Perché non avrebbe dovuto fuggire?
C’é una drammatica, dolorosissima incomprensione che rende il sacrificio di Don David più grande e meritorio. I suoi parrocchiani non lo compresero. Presi dalla paura di morire o di veder morire i loro fa-miliari per mano dei tedeschi furono ingiusti con Don David pretendendo che fosse lui a sacrificarsi per loro e non sbollirono la loro rabbia neppure quando lo videro tornare a Narischio per affrontare la morte. Lo accolsero con ostilità e disprezzo.
E così a Don David, pastore immolatosi per il suo gregge, non fu risparmiata neppure l’ignominia dell’ingratitudine.
Questo é stato Don Berrettini: un antieroe che si é fatto eroe. Questo é stato il suo martirio, consapevole, liberamente accettato per fedeltà al suo sacerdozio, per amore dei suoi parrocchiani. Una medaglia d’oro al merito civile lo attesta ufficialmente.
La vicenda di Don David fa riflettere che purtroppo é possibile, accade, che meriti grandi rimangano sconosciuti, che eroi e santi attraversino i nostri giorni e non ce ne rendiamo conto. Per questo la testimonianza di Don Abramo Tenti è preziosissima.