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Associazione Nazionale Partigiani Cristiani

Archivi per il mese di “gennaio, 2015”

Giornata della memoria a Milano e provincia

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La bella fanciulla, il nuovo libro di Pompeo de Angelis

copertina PompeoIl giorno 17 gennaio a Terni presso il Cenacolo san Marco è stato presentato il libro “La bella fanciulla“ Don Concezio Chiaretti e la resistenza di Pompeo De Angelis, edito da Dalia edizioni.

L’amico Pompeo, presidente dell’ANPC di Terni, ha voluto dedicare il libro a Bartolo Ciccardini.

Il volume, è stato presentato da Fulvio Pellegrini e Mario Venanzi. All’incontro sono intervenuti, oltre lo stesso De Angelis, Marco Lodi dell’Associazione Nazionale Combattenti Forze Armate Regolari della Guerra di Liberazione, Anna Maria Cristina Olini e Pino Ferrarini in rappresentanza dell’ANPC.

Molto gradita la presenza e gli interventi del cugino di Don Concezio Mons. Giuseppe Chiaretti e di Alvaro Valsenti partigiano della brigata Gramsci, che hanno riportato testimonianze vissute in quel periodo.

Numeroso il pubblico presente.

La bella fanciulla

Pompeo De Angelis – Dalia Edizioni

La bella fanciulla dedicato ai borghi della Valnerina Umbra durante la guerra… Lo studio del mondo cattolico nella Resistenza tra Umbria e Lazio, tra Terni, Rieti e la Valnerina, non sembra aver interessato molto gli storici fino ad oggi. Pompeo De Angelis, per la prima volta dopo settanta anni dai fatti, si concentra su don Concezio Chiaretti, uno dei personaggi chiave dei mesi che vanno dal settembre 1943 al giugno 1944. Sono tempi drammatici di mescolanza d’idee, posizioni, atteggiamenti, pratiche di lotta, in cui i comunisti della brigata Antonio Gramsci possono “resistere” al fianco di un prete come don Concezio, senza per questo annullare complessità e differenze.

E’ possibile acquistare il libro direttamente online dalla Dalia edizioni al costo di 10 euro più spese di spedizione oppure richiederlo all’ANPC alla nostra e-mail partigiani.cristiani@gmail.com.

La bella fanciulla presentazione

Quando muore un Partigiano di GIOVANNI BIANCHI

Cosa resta? Quando muore un partigiano una domanda ci accompagna: cosa resta?

Sergio, con il nome di battaglia di “Sparviero” (insieme evocativo e motivante), è passato in queste contrade prima come un combattente della Lotta di Liberazione e poi come cittadino eminente e autorevole, riconosciuto da tutti come tale.

Quando lo incontravo, accanto ai ricordi della lotta partigiana in montagna, c’erano la fierezza di una bella e grande famiglia sparsa per il mondo, di una professione riuscita, di un servizio agli altri concreto e senza smancerie. Aveva contribuito a liberare il suo territorio e adesso lo abitava con passione civile e democratica.

Era presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani di Parma e vicepresidente a livello nazionale. Come ha scritto Ferdinando Sandroni, ha guidato con energia e sapienza l’Associazione, dimostrandosi degno successore di Enrico Mattei e don Giuseppe Cavalli. Si era laureato a pieni voti presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Ateneo genovese, presso il quale aveva discusso la tesi Liquidazione coatta amministrativa, che il relatore definì come la migliore degli ultimi 10 anni.

Ma i suoi comandanti e amici partigiani vollero che tornasse a Parma, dove venne chiamato alla direzione di un importante istituto di credito regionale con sede a Bologna. È stato per oltre un decennio consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Istituti di Credito Agrario e, dal 1991 al 2004, consigliere della Banca d’Italia. Una carriera tutta civile nel segno della competenza e della probità.

Diciamo una cosa molto semplice e perfino banale: Sergio Giliotti ha percorso queste strade e i sentieri del cacciatore di cinghiali molto più a lungo da cittadino democratico che da studente-partigiano. L’epopea del partigiano la ritroviamo nei suoi libri, nelle azioni a rischio, nella costruzione quotidiana delle tappe di una nuova vita democratica destinata a sfociare nell’esaltante esperienza del Territorio Libero del Taro, esperienza alla quale finalmente la storiografia sta dedicando più attenzione.

La ritroviamo anche in qualche atto che ne illumina il carattere e la generosità, come quello che lui mi ha narrato e che lo vide dopo un colpo di mano rischioso lasciare il suo pacchetto di medicamenti a un tedesco a terra ferito.

In lui insomma la quotidianità della vita repubblicana successiva non aveva rotto con la vita quotidiana della Resistenza.

Su questo legame credo sia venuto il momento di riflettere con più attenzione se vogliamo che la Resistenza, oltre ad avere fondato la Repubblica, ci aiuti a continuare a progettare la nostra democrazia, che non è un bene conquistato una volta per tutte.

Sappiamo dalle pagine del suo libro le tappe della sua iniziazione alla Lotta di Liberazione: “Pochi giorni dopo l’8 settembre, assieme a un coetaneo, vagabondavo per i crinali dell’Appennino Tosco-Emiliano… Ai primi d’ottobre, anziché ritornare a Genova per riprendere gli studi, entrai nelle formazioni partigiane… Per passare poi al Distaccamento “Bartali”, dal nome di battaglia del suo primo Comandante per una certa rassomiglianza col grande campione delle due ruote… E, poche settimane dopo, venni dotato di un mitragliatore “Bren”, che fu la mia efficiente e fedele arma per tutto il periodo partigiano… Appena smobilitato, dovevo riprendere gli studi interrotti per prepararmi, durante l’estate, a sostenere nella sezione autunnale l’esame di maturità e recuperare così l’anno scolastico perduto… Ritrovai anche un amico che credevo chiamarsi Bonfanti, mentre il suo vero cognome era Levi. Era un ebreo che, per molti anni, senza mai tradirsi neppure con me che con lui condividevo la stanza, aveva nascosto la sua vera identità… All’esame di maturità svolsi il tema “Dante partigiano anche nella beatitudine del Paradiso”…

Dove ritrovare insieme tante epopea e tanta vita quotidiana?

Mi ha sempre colpito il passo di una lettera di un giovane ventenne conservata nelle pagine dei condannati a morte della Resistenza Europea. Diceva: “Eroi non si rimane”. Semplicemente vero. Ma allora un grande partigiano cosa diventa?

Non è una domanda rivolta soltanto all’esistenza riuscita di Sergio Giliotti. È un interrogativo che ci riguarda perché ci interroga sulla quotidianità delle nostre esistenze democratiche a partire dalla drammatica quotidianità della lotta partigiana.

Cosa resta? Cosa resta per le nuove generazioni degli italiani e cosa resta per un Paese che probabilmente trova nel testo costituzionale l’ultimo fondamento superstite di un idem sentire. Perché accade della Resistenza quel che un grande costituzionalista italiano ha detto della nostra bellissima Costituzione del 1948: anche la Resistenza ringiovanisce vivendola.

Il fare memoria è dunque assolutamente necessario, non soltanto per rendere omaggio alle formazioni partigiane che hanno riconquistato per tutti la libertà, quanto piuttosto per orientarci ai nostri possibili futuri.

Riguarda i giovani più di noi, e non soltanto per l’evidente circostanza che la Lotta di Liberazione fu combattuta e pagata, spesso con la vita, da giovani e giovanissimi. Basta scorrere le lapidi nel sacrario dedicato ai caduti della Seconda Julia nel vostro cimitero.

Confrontarsi con la memoria non è un modo disperato per opporci all’inesorabilità dell’anagrafe. La memoria in sé non esiste. Ce lo hanno insegnato Le Goff e Pietro Scoppola. La memoria storica discende dalle domande che noi le rivolgiamo. E le domande che noi le rivolgiamo nascono dai problemi, dai bisogni, dagli ideali e dalle attese delle nostre vite quotidiane. Una nuova speranza civile nasce così. Per questo non possiamo limitarci a rendere omaggio e a pregare davanti alla bara di Sparviero. La domanda è: come la sua quotidianità esemplare ha continuato a vivere nella sua esistenza non breve, e cosa ci suggerisce per l’avvenire. Continuiamo infatti ad avere bisogno di testimoni e di maestri, ed i maestri sono credibili soltanto quando sono anche testimoni. Per questo mi è parso valesse la pena di ripercorrere a grandi falcate le tappe della sua lunga vita. 

Ma è tutto l’affresco della Resistenza che va recuperato. Quello degli inverni durissimi in montagna e quello della lenta ma inesorabile maturazione antifascista nelle case, nelle campagne e nelle fabbriche, nelle nostre città e nei nostri borghi. Non a caso da queste parti avete avuto un’importante repubblica partigiana, anche se ha potuto danzare una sola estate.

I legami di vicinato e di fraternità si sono prima opposti e poi hanno sconfitto la dittatura. È successo così anche nelle grandi fabbriche della mia città, medaglia d’oro della Resistenza e passata nel mito come la Stalingrado d’Italia.

Andate a rileggervi almeno il primo capitolo del bel libro di Sergio, La seconda Julia nella Resistenza. La più bianca delle brigate partigiane. Il problema non è soltanto ristabilire la verità storica e rivendicare la Lotta di Liberazione come Secondo Risorgimento compiuto da tutto un popolo – casalinghe e preti compresi –; un popolo attraversato da diverse fedi ideologiche, di chi trovava un punto di riferimento irrinunciabile nel partito politico e di chi invece si dichiarava estraneo a ogni disciplina di partito.

Non a caso recentemente la genialità storiografica di Luigi Borgomaneri ha ricostruito con una documentazione assolutamente inedita e altrimenti destinata all’oblio le imprese di un maturo intellettuale di origine tedesca e di un giovanissimo partigiano nel popolare quartiere del Giambellino nella metropoli milanese.

Quella descritta da Giliotti è essenzialmente la storia di una vallata dove uno studente sceglie di stare dalla parte giusta. Uno studente del Collegio San Nicola di Genova che l’8 settembre del 1943 coglie al terzo anno del liceo scientifico. Sergio, dopo le vacanze estive del 1944, anziché tornare a Genova per completare il corso, entra nella brigata partigiana Seconda Julia. 

Mi ha molto colpito ristudiare il ventennio fascista e osservare come perfino nelle canzoni fosse costantemente presente un devastante senso di morte. Ho capito che non era soltanto l’iperbole cara agli spagnoli a far loro pronunciare: Abajo la vida, arriba la muerte.

Era dunque un diffusa voglia di vivere soprattutto nelle nuove generazioni a creare nell’Italia antifascista anticorpi e atteggiamenti contro la dittatura.

Me lo ha confermato il giorno di Santo Stefano il vicino del mio pianerottolo nel condominio. Elettricista specializzatissimo della Marelli e ovviamente partigiano e oggi aitante novantenne: il primo moto di ribellione fu, già negli ultimi anni Trenta, nei confronti del sabato mussoliniano che li voleva far marciare alla Casa del Fascio, mentre loro preferivano giocare tranquillamente a football nel campetto dell’oratorio San Luigi. Poi la Resistenza in città, riparandosi alcune notti nella grotta della Madonna di Lourdes dello stesso oratorio.

C’era il medesimo umore nella tranquilla gioia di vivere di Sergio Giliotti, nel gusto della tavola e dell’invito, nella schietta amicizia, nella passione di tenersi informato ben oltre gli obblighi del suo ruolo di autorevole banchiere.

E quel gesto che mi ha particolarmente colpito del pacchetto delle bende lasciato cadere accanto al nemico ferito. C’è infatti un legame tragico ma indissolubile tra la guerra e la pace. Ne ho trovata l’eco nei giorni scorsi quando papa Bergoglio ci ha ricordato con una qualche abituale ruvidezza che la terza guerra mondiale è già cominciata, anche se a capitoli e a pezzetti

Quale chance allora per una pace sempre costantemente minacciata?

Fu il grande psicanalista Franco Fornari a spiegarci nei primi decenni dell’altro secolo che la guerra è così distruttiva da distruggere anche se stessa, e che per proporsi ha bisogno di indicare ogni volta come meta la pace.

Quando Sparviero combatteva su questo Appennino lavorava coscientemente a un futuro di pace e di democrazia. Una lunga stagione, dove non mancano le ombre e non poche tragedie, che non deve essere archiviata. La giovialità, la serenità, l’impegno professionale e civile di Sergio sono un patrimonio da non sperperare, perché discendeva direttamente dall’esperienza fatta durante la Lotta di Liberazione e perché la pace e la democrazia si tengono in lui come una coppia sponsale. Così i conti tornano, nella memoria come nella nostra quotidianità.

Caro Sergio, non ci sono addii tra credenti, ma soltanto arrivederci.

Quando due giovani studenti della Rosa Bianca, condannati a morte il mattino dalla Corte Popolare nazista di Monaco di Baviera e condotti il pomeriggio alla ghigliottina, si trovarono di fronte al patibolo, uno disse all’altro: “Ci rivediamo tra pochi minuti”.

Non erano ottimisti, ma fondati nella speranza.

La resurrezione dei giusti non cessa di essere drammatica, perché presuppone la morte. Ma il suo futuro sappiamo essere senza fine. 

                                                                                    Gennaio 2015   Giovanni Bianchi

 

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