Ci scrive il Signor Dino Tosi: “E’ possibile ritrovare traccia scritta/foto di attività/persone all’epoca impegnate nel movimento partigiano di cui all’oggetto? Credo vi facesse parte lo “storico” sindaco della Città di Busto Arsizio Giovanni Rossini di cui mio padre Antonio Tosi fu carissimo amico e “compagno” di azione (un figlio di Rossini mi ha confidato che i due agivano in azioni di resistenza “armati” della sola grossa chiave del portone di casa nascosta sotto la manica della giacca!). Vi ringrazio sin d’ora, con grande affetto e simpatia!Io purtroppo non ho potuto conoscer mio papà Antonio e sto raccogliendo notizie sulla Sua persona ed opera, a vari livelli. Prima del matrimonio fu missionario laico comboniano in sud Sudan (per 7 anni dal 1926 al 1932) e poi laico di San Luigi Orione per ben 13 anni”.
Chiediamo soprattutto agli amici della Lombardia ma a tutti coloro che ci leggono se hanno notizie di mandarcele così da mettervi in contatto con il Signor Tosi e soprattutto da ricostruire un altro pezzetto di storia poco conosciuta. Grazie a tutti della collaborazione!
L’Esercito tedesco coadiuvato da fascisti italiani compiono una rappresaglia a seguito dell’uccisione di quattro militari germanici durante l’azione intrapresa per difendere il presidio militare fascista della località dell’entroterra di Fiume. L’eccidio venne eseguito in parte bruciando vivi i civili. Successivamente, per nascondere l’accaduto tedeschi e fascisti fecero esplodere i corpi con la dinamite,
Aprile 1944,Trieste
50 ostaggi, prelevati nelle carceri locali, venivano impiccati per rappresaglia ad un attentato compiuto in una mensa militare germanica nel quale rimasero uccisi alcuni ufficiali e soldati tedeschi.-
30 aprile 1944, Fabriano(AN)
Vengono fatti prigionieri dai fascisti i partigiani Ivan Silvestrini e Elvio Pigliapoco. Vengono fucilati il 2 Maggio 1944 a ridosso del muro del cimitero di S. Maria di Fabriano.
Anche questo 25 aprile rappresenta un punto di arrivo e un punto di partenza. Di arrivo, perché conclude quella dolorosa vicenda, iniziata all’indomani della fine della prima guerra mondiale, che avrebbe lasciato un Paese profondamente cambiato e inserito in un contesto globale radicalmente nuovo. Di partenza, perché nel momento stesso in cui quella dolorosa parentesi si chiudeva, subito se ne apriva un’altra, quella della ricostruzione, civile e istituzionale dell’Italia.
Sono queste le ragioni che ci vedono oggi ricordare insieme l’anniversario della guerra di Liberazione e gli scioperi del marzo del 1944, settant’anni fa. Furono gli operai delle grandi fabbriche del Nord infatti a dichiarare con il loro comportamento civile che un’epoca di barbarie doveva considerarsi conclusa.
Vengo da una città, Sesto San Giovanni, in prima linea nel dire in faccia al maresciallo Kesselring che una tragica stagione stava volgendo al termine e che gli italiani avevano deciso di voltare pagina. Mio padre e tutti gli zii, che pure militavano in formazioni partigiane di diverso orientamento politico, erano presenti su quel piazzale della Falck Unione. Mancava solo il più giovane, trattenuto nel suo laboratorio perché a differenza degli altri, tutti metalmeccanici, faceva il sarto. E quella notte, mentre tutti gli altri dormirono fuori casa, zio Luigi, che non si riteneva sospettato, fu arrestato e condotto Mauthausen, da dove riuscì a ritornare.
Una città la mia – come la vostra, protagonista e anche medaglia d’oro della Resistenza – che da allora prese il nome di “Stalingrado d’Italia”: non perché fosse l’anticipazione della Reggello di Don Camillo e Peppone, dove il sindaco, grazie al sessanta percento del suo partito, la vinceva sempre sul parroco democristiano… Siccome Stalingrado reggeva alle armate di Von Paulus, per le medesime ragioni Sesto e i suoi operai divennero per tutti, per la loro resistenza, la Stalingrado nazionale.
Ho ricordato l’episodio non per campanilismo, ma perché già allora il lavoro e la sua dignità costituirono l’inizio di un riscatto e di una ripresa. Perché è il lavoro il grande ordinatore delle nostre società, prima e più della legge, oggi come allora. E la difesa delle fabbriche e delle macchine significò la volontà di ricostruire il Paese nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza, perché il superamento delle distanze sociali continua ad essere la spinta ineliminabile di una vera democrazia.
Sandro Pertini, grande capo partigiano e non dimenticato presidente della Repubblica, non a caso aveva l’abitudine di ripetere: “Non ci può essere vera libertà senza giustizia sociale. Non ci può essere giustizia sociale senza vera libertà”.
Siamo oggi di fronte alle molte facce di una crisi economica e sociale e alla fase finale di una transizione infinita sul piano delle istituzioni. Abbiamo assistito alla dissoluzione delle regole e alla conseguente caduta dell’etica pubblica. Al venir meno della fiducia nel futuro, per cui sembra rincuorare e spronare tutti, credenti e non credenti, l’invito di papa Francesco a non lasciarci rubare la speranza.
Il dovere dell’ora è dunque ritrovare un senso comune al nostro vivere repubblicano. Recuperare insieme un idem sentire senza il quale un traguardo comune non è raggiungibile né può esistere.
A ricostruire il Paese furono allora le stesse forze politiche che erano state forgiate dalla comune esperienza della Resistenza ed esaltate dalla Liberazione, e lo fecero a partire dalla sua Carta fondamentale: la scrittura della Costituzione della Repubblica vide infatti realizzarsi, in una sinergia di straordinaria importanza, una collaborazione storica tra due blocchi che, seppur profondamente divisi, seppero unire le loro migliori energie ed intelligenze intorno a una comune idea non solo di Stato, di società e di cittadino, ma anche e soprattutto di uomo.
Fu lungo questa linea interpretativa che – secondo Leopoldo Elia – Dossetti riuscì a convincere la commissione dei Settantacinque che fosse possibile rintracciare “una ideologia comune” e non di parte sulla quale fondare il nuovo edificio costituzionale. Una concezione caratterizzata cioè dalla centralità dei diritti della persona, dei suoi diritti fondamentali “riconosciuti” e non creati e dettati dalla Repubblica.
Vengono così posti nel terreno della Nazione i semi di un duraturo (e includente) personalismo costituzionale. Il vero idem sentire del Paese sopravvissuto a laceranti divisioni, con una ambiziosa e non spenta azione riformatrice in campo economico e sociale.
Molti italiani ignorano l’autentica svolta a gomito rappresentata dal secondo ordine del giorno presentato da Giuseppe Dossetti nella Seconda Sottocommissione, e votato all’unanimità. Il problema risolto in quella occasione è discriminante perché Dossetti, dopo aver asserito che forze e culture diverse possono scrivere insieme la Costituzione soltanto trovando una base e una visione comune, avanza la propria proposta. Era il 9 settembre del 1946. Di assoluto rilievo la geniale (e non revisionistica) impostazione data in quella occasione al tema fascismo–antifascismo, dal momento che la Costituzione del 1948 è illeggibile a prescindere dalla Lotta di Liberazione.
Propone Dossetti: se il fascismo è il prevalere dello Stato rispetto alla persona, noi assumiamo come antifascismo il prevalere della persona rispetto allo Stato. Si tratta di accedere ad una convenzione politica ed anche etica.
Che il fascismo fosse la prevalenza dello Stato rispetto alla persona lo testimonia l’articolo Che cos’è il Fascismo firmato per L’Enciclopedia Italiana da Benito Mussolini e scritto, come è risaputo, da Giovanni Gentile. Quanto alla preminenza della persona siamo ancora una volta al cuore della cultura cattolico-democratica, centrale – anche per la concezione dei cosiddetti “corpi intermedi” e del bene comune – nel filone di pensiero che va dalla Dottrina Sociale della Chiesa a Maritain e Mounier.
Nessuno tra i costituenti, grazie alla soluzione fornita da Dossetti, doveva strappare le pagine della propria storia o almanaccare intorno alla espressione “guerra civile” introdotta in seguito da De Felice. Una Costituzione che oppone un muro di legalità e partecipazione alle derive plebiscitarie. Una Costituzione che non a caso menziona il lavoro al primo posto e nel primo articolo: dove il lavoro risulta fondamento della convivenza nazionale, in quanto diritto e dovere della persona, non assimilabile in alcun modo al diritto commerciale, proprio perché la persona non è riducibile a merce e anzi la sua dignità viene dichiarata “inviolabile”.
Una Costituzione in tutto personalista dunque. La persona come crocevia di culture sia pure in fiera contrapposizione tra loro. La persona in quanto trascendenza “orizzontale” e “verticale”.
Fu quello, il passaggio fondamentale che decise il destino di un Paese che era passato dalla debolezza del regime liberale all’esperienza del Ventennio e si era, infine, ritrovato in macerie.
Ricostruire significò allora per prima cosa scegliere: scegliere di abbandonare la monarchia, di deporre le armi, di preferire la via della pacificazione a quella della vendetta.
Ma anche ripulire il terreno dalle macerie e decidere insieme che Paese sarebbe stato l’Italia da quel momento in poi, in quale modello di uomo e di società insieme ci saremmo specchiati, per realizzare quale cittadinanza avremmo dovuto impegnare tutte le nostre energie.
Ha probabilmente ragione Benigni quando sostiene che la nostra è la più bella Costituzione del mondo. Certamente è la meglio scritta. Circostanza non casuale, perché fu allora creato un gruppo di lavoro incaricato di limarne il testo sotto la regia di Benedetto Croce. Al punto che quando un decennio fa un gruppo di lavoro totalmente trasversale, del quale facevo parte, provò ad aumentarne il tasso ecologico (il testo infatti parla soltanto di “salvaguardia del paesaggio”, e tanta laconicità non può che risultare comprensibile se consideriamo che i padri costituenti scrivevano tra macerie ancora fumanti e il problema della ricostruzione sopravanzava di gran lunga ogni altra preoccupazione) fummo costretti a desistere, non tanto per divergenze di contenuto, quanto piuttosto per l’inadeguatezza delle formule del nostro linguaggio ad entrare nel testo del 1948. Avevamo infatti l’impressione di introdurre battute dei Legnanesi tra le terzine di Dante…
I partigiani di tutte le formazioni, gli italiani apertamente o silenziosamente capaci di una resistenza civile diffusa furono già allora tra i protagonisti di un rinnovamento che attraversava lo Stato ma anche la quotidianità della gente e la sua capacità di mettere insieme relazioni solidali.
In quel momento gli Italiani, provocati nella coscienza dall’esperienza del Ventennio, dalla barbarie di una guerra ingiusta in cui ad essere annichiliti furono, prima che i popoli, il concetto stesso di uomo e la dignità delle persone, seppero tornare ad essere esempio di dignità dandosi una Costituzione che metteva con forza la persona umana al centro di qualsiasi teorizzazione civile, sociale, statuale, politica.
Ciò che la guerra e i suoi protagonisti avevano distrutto – il concetto di uomo – noi in quel momento ricostruivamo con caparbia determinazione. E lo facemmo a partire dalla Carta fondativa dello Stato.
Con uno straordinario coraggio, i componenti delle forze politiche che avevano liberato il Paese, coloro i quali si erano ritrovati a combattere in prima linea, in tutte le sedi, dalla clandestinità in patria e dall’esilio, per la liberazione d’Italia, sancivano che da quel momento in poi la sovranità sarebbe spettata alla persona.
La ricchezza e l’attualità della nostra Costituzione risiedono infatti nella sua caratteristica principale, di essere cioè Costituzione vivente, che non si esaurisce nell’affermazione di vuote formule o astratti postulati, ma traccia una rotta da seguire, indica a che cosa deve essere rivolto il lavoro di ogni cittadino, di ogni associazione di cittadini, di ogni amministrazione e istituzione dello Stato:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Una Costituzione viva, per lo spirito ricostruttivo che l’anima, per la centralità della persona.
Sono questi i fili conduttori, a quasi settant’anni da quel giorno, della nostra esperienza di cittadini e di Italiani oggi; gli elementi che rappresentano un ponte con quel 25 Aprile di allora.
Gli eventi degli ultimi, difficilissimi mesi ci dicono che siamo arrivati al termine di un modo di intendere lo Stato e il rapporto tra cittadini e istituzioni. Non solo per quel che riguarda il nostro Paese, ma anche per la comune patria Europa. Casa comune fin nel pensiero dei nostri padri fondatori.
Non ci si può allontanare troppo dai padri fondatori, dal loro pensare in grande e parlare di conseguenza, e accedere alle liturgie vincenti di un populismo dilagato in tutti gli schieramenti che privilegia il vincere rispetto alla coltivazione degli ideali e del sogno, e quindi all’affermazione di una democrazia che non è mai un guadagno fatto una volta per tutte.
La riduzione populistica del dibattito alla quale assistiamo finisce per perdere profondità e prospettiva, accettando che il campo del confronto sia essenzialmente quello intorno all’euro. Dimenticandone i convulsi retroscena politici, le preoccupate telefonate tra Parigi e Londra nel momento in cui Helmut Kohl decise la riunificazione delle due Germanie , mentre da Roma Giulio Andreotti commentava con il proverbiale disincanto: “Amo tanto i tedeschi da preferire che di Germanie ne restino due”. L’euro infatti risultò allora la mediazione ottenuta come contropartita rispetto ai timori di un’egemonia del marco e della Germania.
Dunque fin dall’inizio la moneta comune europea non è affare di soli banchieri, ma problema tutto interno al destino del Vecchio Continente e di sovranità tra gli Stati contraenti. Se si prescinde dalla durezza di questa memoria si diventa corrivi a quel dilagare dei poteri finanziari rispetto a quelli politici che ha trasformato progressivamente – complice non soltanto il fiscal compact – gli gnomi di un tempo nei signori della moneta e della Bce. La traduzione europea cioè, dopo la crisi iniziata nel 2007, di quella che Obama nel primo discorso di insediamento alla Casa Bianca definiva l’avidità dei mercati.
Da non demonizzare (i mercati, non l’avidità) dal momento che in essi agiscono i grandi fondi di pensione mondiale e senza i loro acquisti dei nostri titoli di Stato non riusciremmo a pagare gli stipendi degli insegnanti e dei medici.
Ma altro è fare i conti con la durezza dei mercati ed altro consegnare ad essi lo scettro di comando. Prospettiva che ci rimanda insieme al sogno europeo e al realismo delle sue tappe istituzionali.
Non è un caso che Alcide De Gasperi insieme a Jean Monnet sia uno dei più convinti sostenitori negli anni cinquanta della Ceca: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
Quel che lo scetticismo delle diverse famiglie di europopulisti dimenticano è che soltanto il consolidarsi di una dimensione adeguata, insieme economica e politica, è in grado di reggere alla globalizzazione del turbocapitalismo. Di conseguenza accettare il terreno degli avversari riduzionisti è il modo di compromettere non soltanto una tornata elettorale, ma lo stesso significato della costruzione europea.
Pochi ricordano infatti che Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli – pur partendo da visioni differenti e addirittura diametralmente opposte circa lo Stato e la sovranità – ripetono all’unisono nei loro interventi che l’Europa deve considerarsi una tappa verso un governo mondiale. Non solo Stati Uniti d’Europa, ma una forma democratica capace di includere e insieme di governare. Non un problema di moneta, ma un banco di prova della democrazia, non soltanto per il Vecchio Continente. Con garanzie reali per il rispetto della cittadinanza di tutti.
Per questo ha visto bene Romano Prodi quando ha affermato che il welfare, lo Stato Sociale, da aggiornare e riformare, è la più grande invenzione politica di questa nostra Europa. E pazienza se qualcuno meno di un decennio fa ha pensato di dileggiarci – proprio per questo – definendoci figli di Venere e pigmei militari nei confronti dei figli di Marte. Noi siamo contenti di restare dalla parte di Venere.
È importante e da sottolineare in queste celebrazioni e anche in questa piazza la presenza di larghe masse (il termine non è letterario ma statistico) giovanili. Tanto più che anche sulla Resistenza europea sembravano essere calati l’oblio e la dimenticanza.
E invece prima dei padri fondatori ci sono quelli che quest’Europa l’hanno testimoniata nel sangue. Abbiamo fatto l’Europa perché c’è stata una Resistenza europea attraversata da due grandi presenze e da due temi che sono tuttora di bruciante attualità.
Furono i giovani a salire montagna e a non militare per la Repubblica Sociale di Salò e per i suoi analoghi nelle altre nazioni. I giovani sono il nerbo naturale della Resistenza: quelli che l’hanno pagata di più anticipando drammaticamente quella partecipazione dei loro coetanei che settant’anni dopo saranno i protagonisti dell’Erasmus.
La ritroviamo anche in Germania. Il gruppo della “Rosa Bianca” non è soltanto una piccola testimonianza. Quei giovani studenti tedeschi che lasciavano i volantini nelle guide telefoniche dei telefoni pubblici e che invitavano i tedeschi a riappropriarsi della loro dignità di popolo ritornando alle pagine dei grandi pensatori della Nazione : da Heine a Goethe.
E la circostanza che il tribunale nazista li volle giustiziati nell’immediato pomeriggio susseguente alla condanna testimonia della preoccupazione e del timore che quelle posizioni, pur disarmate, rappresentavano per il regime hitleriano.
Quel medesimo regime reso orrendamente famoso dai campi di sterminio – da Auschwitz a Mauthausen – e che mi lascia soprattutto inorridito di fronte alla testimonianza del castello di Artheim, dove gli scienziati del regime operarono i più orrendi esperimenti su uomini considerati meno che cavie. Non più cioè la grigia amministrazione dei seguaci di Himmler in nome della banalità del male denunciata da Hannah Arendt, ma una scienza pervertita nei panni dell’aguzzino.
E, quasi a riproporre un dilemma e un legame attualissimi legati alla presenza dei giovani, l’assenza di lavoro. Perché è sempre vero che il lavoro che manca stanca di più del lavoro che sta.
E se tutti ripetiamo che Hitler andò al potere conquistando il Reichstag con un voto democratico, quel che omettiamo di ricordare è che Hitler andò al potere promettendo e realizzando la piena occupazione. Con venti milioni di morti e sei milioni di ebrei fatti passare per il camino.
Sono tutte buone ragioni per non ridurre l’Europa odierna all’Europa dei banchieri.
L’Europa infatti è fin dalle sue radici un luogo di accoglienza del diverso. Proprio la presenza storica delle radici cristiane – insieme a quelle ebraiche ed islamiche, omesse nel trattato che doveva preludere alla costituzione europea – sono lì a testimoniare che il diverso non è altra cosa e sconosciuta da parte del cittadino europeo. La diversità cioè ci appartiene come patrimonio costitutivo da molti secoli.
Una cittadinanza dell’accoglienza che riguarda i diritti e le regole della democrazia così come le garanzie che ai diritti e alle regole conferisce concretamente lo Stato Sociale. Gli Stati Uniti d’Europa cioè non sono la bella copia aggiornata degli Stati Uniti d’America: essi devono andare oltre se stessi per alludere a una nuova forma di democrazia capace di includere e di dare speranza.
Fuori da questo orizzonte ogni discussione sull’Europa non solo risulta inadeguata e parla d’altro, ma è pure destinata all’impotenza.
Sono i grandi storici, soprattutto quelli di lingua francese, a ricordarci l’importanza delle radici. E così come Braudel suggerisce che non ci può essere Europa a prescindere dalla sua vocazione mediterranea, Jacques Le Goff, recentemente scomparso, per il libro dedicato a evidenziare le radici medievali dell’Europa, non trova di meglio che il titolo: Il cielo sceso in terra…
Non hanno cioè cittadinanza europea i senza-storia, la nuova barbarie televisiva che ha sostituito alla politica non la propaganda, ma la pubblicità capace di generare la domanda attraverso le sue offerte ossessive. Non ha cittadinanza europea la tirchieria mentale (Nino Andreatta) di quanti fanno discendere dalla ragioneria e dalle sue polemiche ed opposizioni interne il destino delle forme politiche. Oltretutto soltanto la grande politica è capace di andare anche contro la storia, perché si è presa il disturbo di conoscerla.
Il senso del nostro 25 Aprile è quindi, oggi come allora, nello spirito della ricostruzione di un Paese che riporti il cittadino e la persona umana al centro di ogni discorso, di ogni scelta, di ogni comportamento, di ogni regola del nostro essere società e Stato. Una persona rispettata, fiera della propria dignità e cittadinanza, e garantita.
Lo strumento ce l’abbiamo: va difeso, riformato e celebrato. Le parole e lo spirito dei Costituenti devono animarci oggi nello sforzo di ricostruire un Paese che deve cessare di apparire esausto, senza speranza, rassegnato al peggio. Ma che proprio per questo deve recuperare la centralità del lavoro proclamata dalla Costituzione: un lavoro in grado di esprimere le potenzialità della persona e capace di essere ancora una volta luogo dell’inclusione e dell’ordine sociale.
Ricostruzione e Costituzione per ripristinare la centralità dei cittadino rispetto allo Stato, della persona rispetto alla politica e, soprattutto, all’economia e alla finanza.
Non abbiamo che da continuare un percorso cominciato settant’anni fa.
Viva l’Italia democratica!
Viva l’Europa dei popoli democratici!
Viva la memoria di questo 25 aprile, che non può restare soltanto memoria!
Comm. Bernardo Traversaro, Presidente Onorario ANPC
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro con le Associazioni Partigiane, Combattentistiche e d’Arma nel 69° Anniversario della Liberazione
Palazzo del Quirinale, 25/04/2014
Anche quest’anno, l’incontro con le rappresentanze delle associazioni partigiane, combattentistiche e d’Arma, e insieme della Confederazione italiana tra le associazioni combattentistiche e partigiane, costituisce la cornice più degna e significativa per la celebrazione del 25 aprile, festa della Liberazione. Per una celebrazione che veda uniti, nella persona del Capo dello Stato le massime istituzioni della Repubblica, e in tutti voi quel mondo associativo che racchiude in sé l’universo dei valori storici del patriottismo, della lealtà verso la nazione e della combattiva difesa dei suoi interessi, della sua dignità, della sua sicurezza.
Nel celebrare, nel 2010 e 2011, il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, abbiamo potuto verificare, con profonda soddisfazione, come sia rimasta viva e operante quella riscoperta del senso della patria che, dopo la rovina del nazionalismo fascista, fu un frutto prezioso della Resistenza, in un rinnovato legame con la tradizione del Risorgimento. Un senso della patria che venne riscoperto in uno col valore della libertà, divenendo sostrato essenziale della costruzione – a partire dal 25 aprile 1945 – della nuova Italia democratica, repubblicana, costituzionale.
I valori e i meriti della Resistenza, del movimento partigiano, dei militari schieratisi nelle file della lotta di Liberazione e delle risorte forze Armate italiane, restano incancellabili, al di fuori di ogni retorica mitizzazione e nel rifiuto di ogni faziosa denigrazione : e a voi, alle vostre associazioni, tocca portare avanti una meritoria opera di trasmissione di quei valori e di quella complessa e drammatica esperienza in un rapporto che va sempre ristabilito con le generazioni più giovani.
La Resistenza, l’impegno per riconquistare all’Italia libertà e indipendenza, fu nel suo insieme un grande moto civile e ideale, cui parteciparono in vario modo le popolazioni delle regioni occupate dalle forze della Germania nazista. Ma fu innanzitutto – non sembri superfluo sottolinearlo – popolo in armi, mobilitazione coraggiosa di cittadini, giovani e giovanissimi, che si ribellavano all’oppressione straniera, di italiani che uscivano dalle dure vicende della guerra fascista e riprendevano le armi per la causa della liberazione dell’Italia e dell’Europa dal totalitarismo e dal dominio tedesco. E non mancò l’apporto delle donne che nel ’44 si costituirono nelle regioni del Nord in “Gruppi di difesa delle donne”.
Lo stesso fondamentale obbiettivo di un futuro di pace esigeva una mobilitazione armata, che si avvalesse delle nostre migliori tradizioni militari. Non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace ; l’alternativa era tra un’equivoca passività e una scelta combattente. Fu quest’ultima che risultò decisiva per restituire dignità nazionale all’Italia. Esitazioni e ambiguità furono spazzate via con la dichiarazione di guerra alla Germania, il 13 ottobre 1943, da parte del nuovo governo italiano ; e il conseguente riconoscimento del pur anomalo status di paese cobelligerante, di fatto partecipe dell’alleanza antifascista, consentì all’Italia di prendere il suo posto nel futuro dell’Europa e dell’intero mondo democratico.
Il 6 giugno prossimo avrò l’onore di rappresentare l’Italia – su invito del Presidente della Repubblica francese – alle solenni celebrazioni in Normandia del settantesimo anniversario del grandioso e decisivo sbarco alleato. E vi parteciperò in nome di un popolo che aveva rotto nel 1943 con il fascismo e con l’asservimento alla Germania hitleriana, e in nome delle nostre nuove forze armate nazionali che allora già combattevano in Italia insieme con le forze anglo-americane. Due giorni prima dello sbarco in Normandia, il 4 giugno del 1944, le forze alleate entrarono in Roma come liberatrici anche grazie all’eroico contributo della Resistenza romana.
Sono, questi, dei decisivi momenti che vanno sempre ricordati insieme a tanti altri che segnarono il cruciale periodo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Momenti di umiliazione dapprima e quindi di riscossa ; momenti di lotta vittoriosa e di terribile sacrificio. Il sacrificio, sopra ogni altro, di quanti pagarono il prezzo di feroci e vili ritorsioni : saluto i molti nostri ospiti che rappresentano oggi qui tante tappe di quel duro e doloroso cammino. Saluto in primo luogo – perché meritano una riparazione per l’aver lasciato, tutti noi, troppo a lungo in ombra quella dolorosissima esperienza – i famigliari dei 103 ufficiali del decimo Reggimento “Regina”, che nell’isola greca di Kos nell’ottobre del 1943 furono sommariamente processati e barbaramente trucidati per non essersi piegati alle pretese germaniche di sopraffazione e alle minacce di brutale ritorsione. La grande maggioranza di essi aveva meno di 30 anni. Al loro consapevole e coraggioso comportamento deve andare oggi il nostro omaggio, additandolo come esempio di fedeltà a valori essenziali di coerenza, fierezza e amor di patria. E insieme auspico che le spoglie dei trentasette ufficiali che ancora giacciono in luogo ignoto dell’isola possano presto trovare una degna e onorevole sepoltura, confortata dalla riconoscenza e dalla pietà di noi tutti.
Saluto nello stesso spirito tutti i Sindaci e rappresentanti delle città-martiri delle orrende indiscriminate reazioni di rabbia sanguinaria da parte delle forze di occupazione contro gli italiani che davano prova di fierezza e di amore per la libertà. Parlo delle stragi naziste, dalle più note a tutte le altre, di cui voi, cari invitati, portate testimonianza. D’altronde ho io stesso ripercorso nelle scorse settimane alcuni di quei luoghi e rivissuto alcune di quelle vicende di violenza e di distruzione: da Cassino e Montecassino alle Fosse Ardeatine, vero e proprio sacrario delle vittime di un bestiale antisemitismo.
In questo giorno il mio pensiero va anche alle prove dolorose che seppero affrontare con grande coraggio e spirito di fedeltà alla Nazione i numerosissimi militari italiani che vennero internati in Germania e che non cedettero ad alcuna lusinga, ma scrissero le loro pagine nella storia della Resistenza.
Ma è giusto, a proposito di stragi e massacri nazisti, citare le alte espressioni di omaggio, in chiave non solo di riflessione autocritica ma di nobile manifestazione di un senso di colpa collettivo che sono venute anni fa e ancora di recente da rappresentanti di grande autorità istituzionale e morale della Repubblica federale tedesca : da ultimo, la visita ispirata e commovente a Sant’Anna di Stazzema e l’incontro con la gente del Presidente Gauck, l’abbraccio con cui noi Capi di Stato di due paesi che poi hanno dato molto alla costruzione di un’Europa unita, ci riconoscemmo in valori comuni di libertà e solidarietà.
Purtroppo l’Europa e le sue istituzioni hanno dovuto negli ultimi anni affrontare una crisi finanziaria, economica e sociale da cui ancora faticano a uscire, e una conseguente crisi di fiducia che mette a rischio il lungimirante processo di integrazione avviato all’indomani della seconda guerra mondiale. E invece di un ulteriore sviluppo del processo d’integrazione, anche in senso politico, abbiamo più che mai bisogno per parlare da Europei con una voce sola, per far pesare nei nuovi equilibri globali quelle tradizioni e quelle potenzialità che possiamo ormai esprimere solo unendo i nostri sforzi.
Unendo le nostre forze anche nel campo della difesa e della sicurezza, dinanzi ai molteplici focolai di tensione e di conflitto che si sono venuti accendendo non lontano dai confini dell’Unione Europea. L’Italia e l’Europa sono chiamate a concorrere al superamento di qualsiasi contrapposizione – specialmente, oggi, nell’area del partenariato orientale coltivato dalle istituzioni dell’Unione – ricorrendo a tutte le risorse della diplomazia, attraverso negoziati da condurre con realismo e moderazione. Ma certo non possiamo sottovalutare la necessità di essere in grado di dare un concreto apporto, dove sia necessario – come già lo è stato in varii teatri di crisi – sul piano militare.
Nessuna delle missioni europee e internazionali che sono risultate efficaci – dal Kossovo al Libano – per produrre effetti di stabilizzazione e di salvaguardia della pace, sarebbe stata possibile senza il supporto delle Forze Armate dei nostri paesi.
Dobbiamo dunque procedere nella piena, consapevole valorizzazione delle Forze Armate che continuano a fare onore all’Italia. E desidero non far mancare una parola per come fanno onore all’Italia i nostri due Marò a lungo ingiustamente trattenuti lontano dalle loro famiglie e dalla loro Patria. Dobbiamo procedere in un serio impegno di rinnovamento e di riforma dello strumento militare, razionalizzando le nostre strutture e i nostri mezzi, come si è iniziato a fare con la legge in corso di attuazione, e sollecitando il massimo avanzamento di processi di integrazione al livello europeo. Potremo così soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni demagogiche antimilitariste.
In questo impegno, e nella riflessione che lo sostiene, attingiamo certamente alla lezione e all’esempio della Resistenza, dando anche questo senso profondamente attuale all’odierna celebrazione del 25 aprile.
Viene arrestato il gappista Guglielmo Blasi, mentre effettuava un furto e trovato in possesso di documenti tedeschi contraffatti. Per salvarsi diventa collaboratore della banda Koch, favorendo gli arresti di Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Luigi Pintor[2], Raoul Falcioni, Duilio Grigioni e Silvio Serra.[3] Invano darà la caccia a Carla Capponi e a Rosario Bentivegna.
[1] Pietro Benedetti, ebanista, commissario politico della Ia Zona del PCI. La sua prigionia a via Tasso è testimoniata dal suo nome graffito sul muro della cella.
[2] Luigi Pintor (1925-2003). Nato in una famiglia antifascista sarda, fratello di Giaime Pintor. Combatte con i GAP fino al suo arresto il 14 maggio 1944. Torturato per 8 giorni dagli aguzzini della banda Koch, alla Pensione Jaccarino. Poi imprigionato a Regina Coeli, condannato a morte. Liberato all’arrivo degli americani.
[3] Silvio Serra verrà fucilato il 4 giugno 1944. Medaglia d’Oro al Valor Militare.
La celebrazione del 25 aprile ha avuto una novità a Terni: l’ANPC, Associazione Nazionale Partigiani Cristiani, della città ha partecipato, a fianco delle altre associazioni resistenziali ternane, al ricordo dei caduti di 70 anni fa nella lotta contro i nazifascisti. Abbiamo insieme ribadito il giuramento di fedeltà alla Resistenza; ci siamo riconosciuti uniti nella Repubblica e nella Costituzione. Abbiamo deciso di collaborare. In particolare, noi abbiamo ricordato i nostri combattenti per la libertà: sul piano politico, il nostro riferimento è stato ai nomi di Enrico Mattei e Don Giuseppe Dossetti, partigiani veri. Per la storia locale, abbiamo rievocato le figure di Poliuto Chiappini e di Filippo Micheli, democristiani, membri del CLN fin dal 1943. E inoltre i preti che non abbandonarono Terni devastata dai bombardamenti che diedero l’avvio alla ricostruzione della città. L’impegno comune che abbiamo preso è stato di approfondire le storie della Resistenza, della Liberazione, della Costituzione repubblicana divulgandole nella cittadinanza post bellica. Pompeo De Angelis.
Pompeo De Angelis, Presidente ANPC Sezione Terni
Pompeo De Angelis con il fazzoletto blu dei Partigiani Cristiani
Corteo
Viene posta la corona sotto la lapide dei martiri di Terni
Al tavolo della presidenza Brega presidente consiglio regionale umbro, Di Girolamo sindaco di Terni, rappresentante ANPI, Polli pres. Provincia Terni
De Angelis segretario dell’ANPC di Terni Sindaco Di Girolamo, presidente Polli
Non posso mancare alla celebrazione del 25 Aprile a Cerreto d’Esi.
Ho scritto un libro sugli episodi straordinari della Resistenza sui monti del mio paese, che ha dato occasione a Pietro Scoppola di scrivere una splendida prefazione con un suo interessante giudizio storiografico sulla Resistenza civile.
Ma è un’altra la ragione per la quale non ho potuto rifiutare l’invito del Sindaco, del Vescovo di Fabriano e dell’ANPI: perché ritengo di essere ormai l’ultimo testimone della morte di Giuseppe Chillemi, il Partigiano caduto nella notte che seguì la Liberazione, a cui oggi verrà dedicata una lapide.
Il giorno prima i Partigiani avevano liberato Cerreto d’Esi, quando ancora non erano giunte le truppe alleate. Nella notte i tedeschi tornarono con una spedizione punitiva: sorpresero tre Partigiani che presidiavano il Comune e li fecero prigionieri. Li impiccheranno alcuni giorni dopo durante la loro ritirata. Presero anche prigionieri due membri del Comitato di Liberazione Nazionale.
Mentre si ritiravano con i prigionieri furono sorpresi da Chillemi che presidiava la stazione, che era dalla parte opposta del Palazzo Comunale. Chillemi ordinò il “chi va là” ed aprì il fuoco sulla pattuglia dei tedeschi. Lo scontro fu duro e reiterato finchè Chillemi fu ferito a morte.
I tedeschi fuggirono portando via i tre Partigiani catturati mentre i membri del CLN si salvarono fingendosi morti. Era l’alba: io ero un ragazzo curioso di 15 anni, scappai da casa e mi affacciai alle mura che circondano il Paese e vidi dall’alto questo ragazzo che giaceva nel punto in cui aveva combattuto ed era stato colpito. E quindi sono venuto a dare la mia testimonianza.
È stata una bella cerimonia: una giornata di sole inaspettata, la banda musicale, come si usa nei paesi di antica cultura, il Sindaco, il Vescovo, le bandiere, i cittadini, i giovani e le scolaresche. Un ricordo commosso ed affettuoso, un saluto dei rappresentanti della famiglia venuti dalla Sicilia.
La guerra aveva sorpreso Giuseppe a Mondovì. Era un aviere, probabilmente era giunto sui nostri monti perché cercava di passare il fronte per raggiungere la sua famiglia in Sicilia, ma il giorno in cui aveva raggiunto il suo scopo, perché si trovava a presidiare un paese che era stato liberato ed aveva ormai la strada aperta per tornare a casa, era caduto.
Vengono arrestati e imprigionati a Regina Coeli dirigenti del Movimento Uomini dell’Azione Cattolica, tra cui Enrico Basevi, appartenente al FCMR, e l’avvocato Vittorino Veronese.
In un bar di via Aosta, la banda Koch arresta 4 uomini. Le persone presenti reagiscono. Koch ordina di fare fuoco e viene ferita a morte Maria Carmosino Di Salvo. Viene ucciso anche Luigi Mortellini.
Sulla Casilina i gappisti si scontrano con i tedeschi, eliminandone due.
28 aprile 1944, Borgo Tufico(Fabriano)
Mario Bisci e Remo Mannucci, coltivatori, scambiati per partigiani poiché si diedero alla fuga nella zona di Borgo Tufico, furono raggiunti da raffiche di mitra di una pattuglia tedesca.
In seguito all’uccisione di un tedesco sorpreso a rubare, vengono interamente incendiate e distrutte le contrade di Carnale, Storti e Pace. Le case rase al suolo sono 70.
Ernesto Melis è capitano dei bersaglieri, ferito in Libia e sorpreso dall’armistizio mentre era istruttore all’Accademia di Modena. Di origine sarda, militare di carriera, apparteneva ad una famiglia di servitori dello stato; probabilmente monarchico, voleva tener fede al giuramento prestato. Raggiunge, con due colleghi, suo padre a Spoleto (il direttore della prigione della Rocca) e assume senza esitazione, come per un piano preordinato, l’iniziativa del reclutamento e del reperimento delle armi. Ma i partigiani umbri non sono soli, aggregano soldati ed ufficiali italiani sbandati, raccolgono militari britannici e sudafricani fuggiti dai campi di prigionia (Colfiorito), detenuti antifascisti slavi ed italiani. Solo dalla Rocca di Spoleto ne evadono (con il favore del direttore) circa un centinaio. Prende corpo la brigata sopra la Val Nerina e i monti Sibillini. E. Melis, si trasferisce con altri partigiani a Gavelli, sulla Nera. In questo periodo Melis subisce i ricatti dei fascisti, che , con bandi affissi nei paesi della montagna, lo avvertono della rappresaglia contro i familiari (il padre non era fuggito), se continuerà nelle sue imprese partigiane. Fra gli evasi c’è il tenente slavo Dobrich Milan, che dapprima si unisce alla formazione del capitano Melis per poi staccarsi per andare a fondare, con l’aiuto della famiglia Del Sero, alcuni gruppi partigiani denominati “Banda dei Monti Martani” Secondo una tattica geniale le forze, organizzate a squadre, operano su vaste aree, con grande mobilità e autonomia d’iniziativa, richiamando e disperdendo così ingenti reparti fascisti e della Gestapo.
Nel rispetto del provvedimento emanato, in data 8 maggio 2014, dal garante per la protezione dei dati personali, si avvisano i lettori che questo sito si serve dei cookie per fornire servizi e per effettuare analisi statistiche completamente anonime. Pertanto proseguendo con la navigazione si presta il consenso all' uso dei cookie. Per un maggiore approfondimento leggere la sezione Cookie Law nel menu, oppure leggere la Privacy Policy di Automattic. Per info:
http://automattic.com/privacy/
Il libro successivo può essere acquistato solo nelle librerie ed edicole di Rieti (a Roma è nella libreria ARES - via Lorenzo il Magnifico-); e presso l’ufficio amministrativo della parrocchia di “Gesù Buon Pastore” alla Montagnola, via Perna 3. (costo 12 Euro i.c.).