ANPC Nazionale

Associazione Nazionale Partigiani Cristiani

Archivi per il mese di “dicembre, 2013”

QUEL NATALE DEL 1943 A CORINALDO di Angelo Sferrazza

E’ stato difficile raccontare alle figlie quel Natale di settanta anni fa: con i nipoti sarà impossibile. Settanta anni sono tanti, ma non tali da cancellarne il ricordo. Uno studioso americano ha scritto che eventi fortissimi, di ogni tipo, raddoppiano l’età del bambino che li vive. Pur avendo allora solo  quasi otto anni,  ho ancora impresse nella memoria le date del 25 luglio e dell’8 settembre ‘43, anche perché vivevo  a Fano nel deposito militare del 94° Reggimento Fanteria, da dove dopo il 10 settembre siamo dovuti scappare prima dell’arrivo dei tedeschi. Fummo ospitati e nascosti per qualche giorno in una casa di gente semplice e buona, poi accompagnati a Corinaldo, dove restammo fino alla Liberazione, il 10 agosto del 1944. La vita dello “sfollato” non era facile, anche se noi avemmo la fortuna di essere accolti per un anno in una casa di persone straordinarie. In quei due anni fra il ’43 e il ’44 emersero una solidarietà e una fraternità incredibili, che riscattò la violenza cieca e brutale di altri. Una lezione da portarsi dietro per tutta la vita. E nella casa di quella famiglia trascorremmo il Natale del 1943. Di quello degli anni passati ho solo, ovviamente uno sbiaditissimo ricordo, i “cappelletti” in brodo e certi dolcetti al miele, sfingi, che mi mandava la nonna dalla Sicilia. Con l’Italia divisa, nessun pacco con la carta blu fuori e oleata dentro arrivò in quell’anno. Ma ci fu il presepio, con “vellutina”, pastorelli e il Bambin Gesù. Un presepio povero, ma con significati che non ho più ritrovato nel futuro, significati religiosi e spirituali. Perché quel periodo fu segnato da una forte religiosità. Per me piccolo, che forse non ero mai stato in chiesa, se non per un matrimonio o prima comunione di una cugina, si aprì un mondo sconosciuto e misterioso. Il pellegrinaggio quotidiano all’inizio dell’estate ’44 delle donne quasi tutte scalze e che recitavano a voce alta il rosario alla Madonna dell’Incancellata. E la conoscenza della mamma di Santa Maria Goretti, che abitava a pochi metri dalla casa che ci ospitava e che invitava noi bambini a pregare, cosa che non sapevamo fare, ma che ci sembrava importante. Non ci fu Messa di messa di mezzanotte naturalmente: c’era la guerra e poi io non sapevo nemmeno cosa fosse. Che  cosa mangiammo non ricordo, ma certamente non i “cappelletti”. Ricordo che mio padre e mia madre erano molto tristi. Nessun collegamento con i parenti, niente auguri eppure Fano era vicina, ma la Sicilia no, niente posta, nessun modo per comunicare. Sembra un trucchetto letterario un éscamotage, ma se mi chiedessero: “di che colore era il Natale del “43”, risponderei , “grigio” , perché anche il tempo ha un colore. Quello del ’44 a Fano, di nuovo con gli zii e i cugini, con qualcosa di più buono da mangiare, colorato. La fame. O per lo meno la difficoltà di trovare cibo fu la costante angoscia di quell’anno, ma soprattutto la mancanza di denaro. E’ un miracolo come sopravvivemmo. Forse non è del tutto corretto, concettualmente e storicamente, ma la voglia di confrontare quel Natale con quelli di oggi ti prende, soprattutto in questi momenti di crisi. Da farti apparire fuori posto, esagerate, eccessive certe lamentele, invece di capire  meglio e condividere le difficoltà di chi si trova senza  più lavoro o una casa. Ricordo che mia madre mi raccontava che da piccolo mangiavo le banane, ma nel ’43 non sapevo cosa fossero. Riapparsero qualche anno dopo la fine della guerra. E la cioccolata? Dimenticato il sapore. La prima ce la regalarono gli inglesi, pochissima in verità: la prodigalità non era di quelle truppe, ma non erano ricchi come gli americani! Il 10 agosto scorso sono tornato a Corinaldo. Ho avuto la fortuna di ritrovare, abbracciare e salutare, l’ultima persona vivente della famiglia che ci ospitò, la signora Vera Paniconi. Buon Natale signora Vera! E Buon Natale a tutti quelli che il giorno di Natale si adoperano a farlo sentire meno triste a chi soffre, qualunque sia la sua sofferenza, la nazionalità,  la religione.. Angelo Sferrazza

(da” Il Cenacolo Marchigiano”)

25 Dicembre 1943: la Resistenza in Laterano di NICOLA BRUNI

Durante l’occupazione tedesca di Roma il complesso di edifici extraterritoriali adiacenti

alla Basilica di San Giovanni dette asilo a gran parte del Comitato di liberazione nazionale centrale,

 oltre che a molti ebrei, militari e antifascisti, mentre i nazisti fingevano di non saperlo.

Fu il complesso extraterritoriale del Laterano, appartenente allo Stato neutrale del Vaticano, il principale rifugio – e anche sede operativa, dotata di radio trasmittente – dei capi della Resistenza nei nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, dopo l’8 settembre 1943. Vi si nascose gran parte del Comitato di liberazione nazionale centrale (Clnc), con il suo presidente Ivanoe Bonomi, Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Meuccio Ruini. C’era persino il generale Roberto Bencivenga, comandante della Piazza di Roma per il Regno del Sud. Lo rivela lo storico Andrea Riccardi (ex ministro del Governo Monti) nel libro “L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma” (Laterza).

Protagonista della vicenda fu un sacerdote di 42 anni, Roberto Ronca, rettore del Seminario maggiore, che con il tacito avallo del papa Pio XII si assunse il rischio e la responsabilità di dare asilo nel recinto lateranense a un migliaio di persone, ricercate dai nazifascisti o comunque in pericolo di vita (ebrei, renitenti alla leva della Repubblica di Salò, militari, politici antifascisti e addirittura personalità legate al regime, come la figlia del maresciallo Graziani). Tra i rifugiati più famosi, il geografo ebreo Roberto Almagià e il futuro editore Giangiacomo Feltrinelli.

I tedeschi sapevano che nel Laterano (come in moltissimi altri edifici religiosi di Roma) erano nascosti ebrei e antifascisti, ma recitando una “commedia delle parti” fingevano di non saperlo, e così tenevano sotto ricatto il papa per costringerlo al silenzio sulle loro malefatte.

Pio XII puntava a favorire una transizione non violenta della città dai tedeschi agli Alleati, e alla fine riuscì, con le armi della diplomazia, ad ottenere la liberazione di Roma senza combattimenti il 4 giugno 1944.

Nicola Bruni

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Articolo pubblicato nel giornale online Belsito con vista di Nicola Bruni

www.webalice.it/nbruni1

e nella rivista La Tecnica della Scuola

I Partigiani Cristiani ci sono! Ecco la buona notizia di Natale

Il programma dei Partigiani Cristiani si farà. Ecco la lettera del Presidente Bernardo Traversaro che comunica la decisione della Confederazione di accogliere il programma dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani nelle celebrazioni del 70° Anniversario della Resistenza. Ed ora, al lavoro!

lettera Traversaro

Ai membri della Confederazione delle Associazioni Militari e Partigiane

Lettera natalizia

Sentiamo la necessità di mandare a tutti voi, a nome di tutti i nostri soci, un particolare augurio di Natale e di fruttuoso lavoro per salvaguardare la memoria di coloro che caddero per la libertà dell’Italia e per consegnare questo patrimonio alle nuove generazioni. Ci rallegra il fatto che dopo tante difficoltà sia giunto il giusto riconoscimento di questo  lavoro con la decisione del Parlamento italiano di erogare il contributo del 2013 e di provvedere in modo adeguato alle Celebrazioni del 70° anniversario della Resistenza.

Ma abbiamo anche il dovere di ricordare a tutti voi che ad un membro di questa Confederazione, che a pieno titolo partecipa a questo compito, non sarà riconosciuta alcuna partecipazione al contributo 2013 e non avrà diritto alle provvidenze previste per la Celebrazioni del 70° anniversario.

Conoscete le due facce del problema relativo alle risorse necessarie. Per quanto riguarda il contributo annuale sapete che il Presidente della Confederazione, Sen. Gerardo Agostini, Presidente anche della nostra Associazione, faceva in modo che una piccolissima parte di quel contributo arrivasse anche alla nostra Associazione. Mentre da un lato apprezziamo ed ammiriamo la discrezione, la prudenza e l’austerità del Presidente Agostini, dall’altro non possiamo non prendere atto che nessuno ha pensato a cosa sarebbe avvenuto dopo la sua improvvisa morte. E cioè che si sarebbe aperto un vuoto destinato ad allargarsi e a pesare ben oltre la natura del contributo.

Ci si è accontentati di indicarci una lunga via legislativa, quasi impossibile se non sarà perseguita con tempestività e decisione da tutta la Confederazione.

Ad accrescere le preoccupazioni si aggiunge la diversa natura della esclusione della nostra Associazione dai programmi della Celebrazione del 70° anniversario. La esclusione è infatti dovuta ad una decisione formale sulla regolarità del progetto. Non entriamo in questa sede nel merito della questione, la cui complessità giuridica non rende giustizia al senso storico dell’iniziativa nel suo significato complessivo. Ricordiamo invece con gratitudine il vostro consenso in sede di Assemblea della Confederazione alla proposta avanzata dal presidente Traversaro per trovare, in qualche modo, una soluzione che consentisse la partecipazione dei Partigiani Cristiani.

La generosità dell’impegno comune è però naufragata di fronte alla insistita applicazione di regole non sostanziali, tutte riconducibili alla mancanza di una firma al bordo dei singoli fogli. Il risultato finale è perciò che noi non potremo prendere parte né alla vostra attività normale, né alla Celebrazione del 70° anniversario.

In queste condizioni la nostra Associazione è destinata a morire. Il realismo dice che le associazioni, anche quelle grandi e gloriose, possono chiudere i battenti e finire il loro percorso. Ma rispetto a questa eventualità – contro la quale ci batteremo con tutte le nostre energie – ci preoccupa soprattutto il rischio che si spenga la voce di una interpretazione storiografica della Resistenza che è un contributo essenziale ed ineliminabile per il giudizio storico di quel periodo.

Di fronte alla storiografia che fa polemica con “l’attendismo” e di fronte all’altra storiografia che considera preponderante nella Resistenza “la zona grigia” dell’indifferenza, gli studi e le testimonianze della storiografia cristiana ci ricordano la scelta popolare e profonda della società italiana di quegli anni per opporsi, anche nella vita quotidiana, all’imbarbarimento. La Resistenza civile fu una scelta precisa contro la guerra, contro le stragi, contro la persecuzione degli innocenti, non solo di quelli che impugnarono le armi, ma anche della parte migliore sella società civile, senza la cui partecipazione e solidarietà, non avrebbe potuto la Resistenza armata.

È questa cultura che non può essere oscurata. Non si zittiscono le voci, così come non si bruciano i libri. È un impegno che rende fraterni i nostri rapporti perché costituisce il vero impedimento al ritorno dei mostri che continuano ad abitare i sotterranei della storia. Così come sappiamo per certo che l’impegno comune di tutte le nostre Associazioni che si dichiarano antifasciste è di difendere insieme le diverse culture storiche che contribuiscono a costituire la comune testimonianza.

Siccome questa è la certezza, l’augurio in occasione del Natale che l’Associazione dei Partigiani Cristiani vuole fare a tutte le Associazioni della Confederazione Italiana è quello di ritrovare assieme le ragioni del nostro stare insieme, per rendere vero e significativo questo Settantesimo Anno della nostra Memoria.

Il Presidente ANPC

Giovanni Bianchi

Il Segretario Nazionale ANPC

Bartolo Ciccardini

Il nuovo libro di Antonio Cipolloni

Esce in questi giorni nelle librerie ed edicole di Rieti un nuovo libro di Antonio Cipolloni:

«La giornata del 9 settembre 1943 primo evento della resistenza in Italia».

Il volume vuole tra l’altro rappresentare quattro importanti elementi:

–        L’immediata reazione dei Granatieri di Sardegna all’improvviso attacco tedesco al ponte della Magliana;

–        La partecipazione della Parrocchia della Montagnola di Roma con il suo Parroco don Pietro Occelli in testa che oltre a dare conforto ai militari feriti aiutò molti dei superstiti ad evitare la loro deportazione in Germania, così come alcuni ebrei che fece vestire da seminaristi cattolici;

–        I Caduti civili che si batterono a fianco dei militari, dei quali quattro originari della Provincia di Rieti (tra cui l’eroica suor Teresina D’Angelo nata a Voceto di Amatrice);

–        Infine il giorno successivo, dopo la resa di Porta San Paolo, la creazione nella Parrocchia, ad opera del parroco, di un Generale e dell’Azione Cattolica parrocchiale, della prima banda Partigiana Cristiana.

Con questi elementi, filo conduttori, l’autore, dopo accurate ricerche e raccolta di testimonianze oculari, ha voluto raccontare le vicende immediatamente successive alla proclamazione dell’Armistizio l’8 settembre 1943, le vicende della Difesa di Roma ed il sacrificio dei militari e dei civili dopo lo stratagemma tedesco che dette inizio alla conquista di Roma nelle ore immediatamente successive al proclama di Badoglio, via radio alle ore 19,30 circa, dell’avvenuto Armistizio con gli Alleati; le attività successive tese a dare conforto e aiuto a quanti si trovarono in pericolo ed in difficoltà durante l’occupazione tedesca, a Roma e nel Lazio.

Nel libro, corredato con numerose foto, d’epoca ed attuali, vengono infatti messi in evidenza episodi e vicende successive al primo scontro avvenuto alla Montagnola il 9 settembre ‘43, e quello del giorno successivo a Porta San Paolo:

a)     L’eroica difesa dai Granatieri di Sardegna (privi di ogni direttiva od ordine sulla nuova situazione creata da quell’avvenimento), ai quali si unirono spontaneamente alcuni civili della zona della Montagnola.

b)     L’iniziativa del parroco della chiesina di Gesù Buon Pastore (don Pietro Occelli, paolino, giornalista, avvocato, poeta già direttore di Famiglia Cristiana, amico e conterraneo di Ferruccio Parri e Duccio Galimberti) il quale salvò numerose vite umane e pose fine al massacro di granatieri e parrocchiani.

c)     L’epico gesto dei Suor Teresina D’Angelo, originaria di Voceto di Amatrice che a colpi di Crocefisso allontanò un paracadutista tedesco che stava depredando il cadavere di un granatiere Caduto della Catenina d’oro.

d)     La nascita, nella canonica della Parrocchia, della prima banda partigiana Cristiana, ad opera dello stesso Don Pietro Occelli, dell’Associazione Cattolica parrocchiale “Piergiogio Frassati” del generale del genio Guastatori Rodolfo Cortellessa. Una formazione che operò dal 11 settembre 1943 fino alla Liberazione di Roma, riconosciuta dal CNL.

Viene ampiamente rilevato anche che, al termine della giornata del 9 settembre, fu necessario (ad opera del Parroco e dei parrocchiani), fornire asilo ad Ebrei nella Canonica, abiti civili ai nostri militari destinati alla Deportazione dai tedeschi; seppellire in fosse comuni gli oltre sessanta tra militari e civili Caduti nello scontro con i tedeschi; dare conforto sommario ai feriti, in mancanza di materiale adatto alla cura delle ferite riportate.

Tra i civili Caduti sotto il piombo tedesco in quella terribile giornata, 4 erano originari della provincia di Rieti e figurano sulle lapidi poste a memoria sulla piazza antistante il Tempio dedicata da De Gasperi e Romita ai Martiri Caduti della Montagnola, così come nella Cripta dello stesso, e nel Museo Storico della Resistenza di via Tasso a Roma, su una Targa bronzea, voluta dai parrocchiani di Don Pietro Occelli.

Il libro, che sarà nelle librerie ed edicole di Rieti e Roma a partire dalla 16 dicembre prossimo (costo 12 Euro i.c.), verrà ufficialmente presentato in occasione della ricorrenza di San Francesco di Sales il 24 gennaio p.v.

La presentazione sarà fatta a cura del Comune di Rieti presso la Biblioteca Paroniana dal Sindaco di Rieti avv. Simone Petrangeli.

Relatore sarà il Vescovo Emerito Mons. Lorenzo Chiarinelli.

Interverranno: l’onorevole Bartolo Ciccardini (segretario Nazionale dell’Ass. Partigiani Cristiani), l’attuale Parroco del Tempio “Gesù Buon Pastore” alla Montagnola di Roma (don Dino Mulassano), l’assessore alla Cultura del Comune di Amatrice Piergiuseppe Monteforte il Consigliere Regionale Daniele Mitolo.

Coordinerà la direttrice della Biblioteca Paroniana Gabriella Gianni.

Il Campo le Fraschette di Alatri

Le FraschetteClicca qui per saperne di più: pieghevole LE FRASCHETTE A4

 

L’attualità di un articolo di De Gasperi su “il Popolo” di FRANCESCO S. AMOROSO

Il quotidiano Il Popolo,fondato nel 1923,fu organo del Partito popolare italiano. Soppresso dal fascismo nel 1925,riapparve poi nel 1943-44 con alcuni numeri clandestini.

Nel terzo numero del 28 novembre 1943 viene pubblicato un saggio a firma Demofilo(pseudonimo di Alcide De Gasperi) intitolato “La nostra Democrazia Cristiana e le sue tradizioni” che è il primo scritto ideologico della DC.

Questo numero si compone di un solo foglio ed è un numero storico.

Lo pseudonimo usato dallo statista di Pieve Tesino ha derivazione greca e significa “amico del popolo”.

L’ideatore di questo pseudonimo fu Guido Gonella,direttore del Popolo dal 1944 al 1946 e questo saggio è il primo documento di elaborazione storico ideologica che la DC diffuse sul suo giornale.

Va evidenziato come la DC sia stata al suo sorgere il risultato di un incontro di generazioni(giovani e anziani di cui parla De Gasperi sul Popolo)che darà luogo a quella unità politica dei cattolici nel partito dello scudocrociato,condizione fondamentale per lasciare un segno nella storia italiana.

In questo suo primo saggio Demofilo si ricollega ai precedenti storici del partito ed ai padri fondatori dello stesso,tra cui Giuseppe Toniolo,evidenziando il valore della libertà personale,la funzione svolta dalle classi rappresentative degli interessi professionali,il valore dell’unità morale della nazione e la capacità della DC di aprirsi alle nuove esigenze.

Una parte rilevante dello scritto riguarda il nome da assegnare al nascente partito della Democrazia Cristiana.

Anche oggi il tema dell’unità politica dei cattolici,dopo la scomparsa della DC e la conseguente diaspora dei cristiani nelle varie forze politiche esistenti,si pone al centro dell’agenda politica.

Vi è per questo motivo la necessità di costruire un nuovo soggetto politico unitario che funga da nuovo contenitore per affrontare temi forse messi in disparte in questo periodo di crisi economica. In particolare i temi etici,ma anche quelli del lavoro,del rilancio dell’economia,della tutela delle fasce più deboli della popolazione,delle nuove povertà.

È necessaria una nuova alleanza fra generazioni per risollevare il Paese dalla grave recessione che lo attanaglia,alleanza che unisca l’esperienza e la competenza acquisita dagli anziani e l’entusiasmo e la determinazione dei giovani per sfruttare al meglio il nostro patrimonio artistico e culturale,le nostre bellezze naturali,la nostra tradizione enogastronomica,l’eccellenza acquisita nella moda,fattori che possono certamente costituire un volano per la nostra economia.

Solo così potremo uscire dal tunnel e vedere una luce di ripresa che ci riconsegni il ruolo che il nostro Paese merita sulla scena internazionale.

Un messaggio quello degasperiano quanto mai attuale e moderno che andrebbe rivitalizzato dalla nostra classe dirigente.

La lunga guerra della Brigata Majella

Zakrzewski

Un ufficiale italiano,comandante di una pattuglia di “Patrioti della Majella”,fornisce informazioni al Tenente Colonnello Zakrzewski,comandante del reggimento polacco “Lancieri dei Carpazi” (Imperial War Museum,Londra)

Nel 1943, i reparti tedeschi, cacciati da Napoli, organizzano precipitosamente una linea di difesa sul Garigliano. Concentrano le loro forze a Cassino, ma per non essere presi alle spalle devono chiudere la linea da un mare all’altro nella direttrice in cui si trova il Parco nazionale degli Abruzzi, la Majella, il Sangro fino a Termoli. Nelle montagne più riposte d’Italia si consuma una tragedia di cui si è perso dolorosamente e colpevolmente il ricordo: i tedeschi fanno saltare i paesi e sii fortificano sulle rovine, compiono stragi di intere popolazioni, si accaniscono contro donne e bambini. Fanno terra bruciata per non aver ostacoli nella difesa

Gli abruzzesi si ribellano e nasce una resistenza tutta particolare, che non nasce per disturbare gli occupanti, ma che difende i propri paesi e le proprie famiglie, affrontando in campo aperto i nemici. Non si chiamano partigiani, (il nome era ancora sconosciuto) e non son partigiani, perché non usano la tattica della guerra partigiana, ma vogliono combattere come una formazione militare presente in campo.

Nasce cosi il piccolo esercito della Majella che avrà caratteristiche uniche nella storia della Resistenza, per questa loro pretesa di riconquistare subito il proprio paese. E si danno il nome di Patrioti.

La zona in cui operano è praticamente vuota: il Re e Badoglio sono a Brindisi, ultimo lembo dell’Italia non occupato dai tedeschi, e non hanno ancora messo in campo forze capaci di operare; gli Alleati sono a Salerno ed a Napoli e cercano di arrivare il più presto possibile a Roma; gli stessi tedeschi sono in quei monti solo per creare una disperata linea di difesa e per rallentare la corsa degli alleati verso il Nord.

I patrioti della Majella chiedono armi e mezzi per combattere. Ma gli Inglesi, che in quel momento sono al comando delle forze alleate, hanno molti dubbi. Non hanno stima dei combattenti italiani, non molto fretta di dare agli italiani una possibilità di riscatto, sono sospettosi verso le posizioni politiche che a loro sembravano di sinistra, temevano di concedere le armi a forze che, alla fine della guerra, le avrebbero potute usare contro di loro.

La realtà era diversa. I capi della Majella erano socialisti (l’avvocato Ettore Troilo era stato collaboratore di Matteotti) e repubblicani ( si definivamo Mazziniani). Fra i volontari c’erano tutte le tendenze politiche, ma avevano i mente di costituire una forza militare disciplinata ed apolitica, nonostante che questo parola fosse inesatta. Infatti era politica la sceltra antifascistA e la pretesa di non accettare la monarchia.

Questo creerà altri problemi quando verrà il momento di inserire la brigata Majella nel CIL (Corpo Italiano di Liberazione) che faticosamente si stava riorganizzando nel Sud. La Brigata Majella ebbero con il CIL un rapporto amministrativo, ma pretese ed ottenne una completa autonomia operativa. E questo non suscito   grande simpatia nei Comandi dell’esercito, anche se il loro contributo fu sempre riconosciuto ed apprezzato.

Ma non sorprendiamoci troppo. Era esattamente questo il rapporto tra i volontari Garibaldini e l’esercito piemontese nelle guerre del Risorgimento. A buon titolo la Brigata Majella entra nella tradizione delle formazioni dei volontari  che hanno caratterizzato la storia italiana.

Finalmente gli inglesi accettarono di far combattere i patrioti della Majella, per una ragione molto semplice: perche avevano bisogno di soldati che conoscessero il territorio, che avessero una grande mobilità, che andassero a piedi senza consumare benzina e che facessero a meno di ricambi e d strutture di sostegno. Lasciarono i capi che erano stati scelti dai soldati, ma li misero agli ordini di tre ufficiali inglesi , come in un qualsiasi reparto di indigeni nelle guerre coloniali.

Possiamo dare questo giudizio senza timore e falsa prudenza, perché i tre ufficiali  inglesi si convinsero del valore del coraggio dei soldati abruzzesi, ne chiamarono altri ad arruolarsi, li difesero nei confronti delle gerarchie alleate ed italiane ed uno do loro , il capo, maggiore Wigram mori combattendo con loro nella impresa più difficile. Non solo, ma dopo aver impiegato il piccolo esercito abruzzese per riconquistare i loro paesi distrutti dai tedeschi, li portarono a liberare le Marche ed a sfondare la linea gotica, facendo nuovi arruolamenti fra gli abruzzesi. La Majella restò un piccolo esercito abruzzese : solo un reparto marchigiano, fatto da partigiani marchigiani che avevano combattuto con loro, ebbe l’onore di entrare a far parte della Brigata Majella.

E parliamo della piccola guerra di questo piccolo esercito “garibaldino”. Come Garibaldi a Varese ed a Bezzecca si fecero subito conoscere per il valore e la mobilità.

Nella zona in cui operavano, che era anche la loro piccola patria, liberarono Civitella Messer Raimondo, Lama dei Peligni, Gessopalena, Torricella Peligna, Fallasco, Montelpiano Fallo e Quadri.

Molte di queste località furono strappate ai tedeschi e rimasero sotto il loro controllo. Ma dobbiamo capire che non c’era un fronte stabile e definito: erano pochi uomini in un territorio grande e montagnoso, senza basi di approvvigionamento, senza riserve e cambi, senza una vera base di comando, per cui la situazione era continuamente variabile e sempre esposta a contrattacchi e sorprese. Era però importante che essi conoscessero i luoghi, godessero della fiducia della popolazione, si occupassero  con amore delle genti disperate ed oppresse che erano anche le loro famiglie. Questo li rese indispensabili e non furono più figli di nessuno.

Il 17 gennaio fu ucciso il primo patriota. Il 31 gennaio iniziò l’attacco al caposaldo di Pizzoferrato. Il 2 febbraio fu liberata Quadri, il 4 febbraio i tedeschi furono cacciati da Pizzoferrato. In quall’azione morì il Maggiore Wagram. A  Marzo il Comando militare italiano del Governo Badoglio, il Generale Messe chiama Ettore Troilo per inquadrare la “banda”, nel Regio Esercito. Troilo rifiuta il giuramento al Re, ma si arriva ad un accordo fra formazioni autonome. I Comandi militari si orientano verso un naturale ed ovvio scioglimento della “banda” con il prelievo dei soggetti alla leva, ma il generale Messe decide di  procedere “con tatto e senza fretta”. Probabilmente tutti pensavano che con l’avanzare del fronte la “banda” si sarebbe sciolta da sola. Non avevano fatto i conti con le necessita della guerra. Con un fronte non solidificato e non ben definito cha andava dal Mar Tirreno al mare Adriatico, segnato da posizioni forti  con grandi spazi aperti nelle zone montuose, una formazione agile, poco pesante e mobilissima capace di controllare il territorio sarebbe diventata preziosa. Nel frattempo la banda presidia e riordina i territori conquistati. Questa operazione si conclude il 13 Giugno a Sulmona.

Gli inglesi si trasferiscono altrove e vengono sostituiti dai polacchi a cui è affidato il compito di conquistare Ancona. I polacchi hanno fatto una esperienza terribile: prigionieri dei sovietici nel 1939 ( quando furono occupati ferocemente da tedeschi e russi, son stati trasferiti in Iraq, dopo l’accordo tra alleati e russi, e sospettano di tutte le formazioni in cui militino anche dei comunisti. Sono sospettosi ed esigenti, ma la Majella non è pronta ad inserirsi nel Regio Esercito (che comunque l’avrebbe sciolta e magari avrebbe processato qualcuno per diserzione) ed  anche i polacchi avevano un problema di uomini dopo le terribili perdite della battaglia di Cassino: cos’ decisero di portarsi gli Abruzzesi con sé. Anzi, permisero anche nuovi arruolamenti, ma solo nella zona di origine. Fu solo la mancanza di munizioni per il disordinato e vario armamento di cui la Majella disponeva impose una limitazione al numero esuberante di richieste. In questa occasione  presero il nome di Brigata. E diventarono l’ala sinistra mobile dello schieramento polacco.

Il colonnello Lewicki, il 18 giugno, ne assunse il comando e divenne, con la sua relazione, lo storico della Brigata oltre che l’ammiratore.

Il 19 giugno il Corpo polacco si dirige su Pescara, il Corpo Italiano di Liberazione (CIL), si dirige su Ascoli, il corpo inglese si muove per l’occupazione di Terni. Fra gli italiani e gli inglesi c’è uno spazio montuoso largo trenta chilometri che la Brigata Majella, partita verso Teramo, più lentamente dovrà controllare. La marcia si concluderà il 2 settembre con la conquista di Pesaro, senza che la Majella abbia mai avuto un cambio, una giornata di riposo, una pausa.

C’è un punto particolare in Italia dove si incontrano tre Regioni: gli Abruzzi, le Marche e l’Umbria. È un paesaggio bellissimo, è una zona montuosa, riservata e civilissima. Da lì la brigata Majella raggiunge l’Arquata del Tronto il 25 Giugno. Il 27 la brigata riconquista Montefortino Il 28 giugno sono a Caldarola e nei giorni successivi, insieme al corpo polacco risale l’intera Regione.

Nella zona montuosa non c’era un fronte ben definito ma ci si poteva scontrare con delle posizioni fortificate. Dopo un primo vero scontro a fuoco con i tedeschi la brigata occupa Serra Petrona, Belforte, e si organizza per bonificare e controllare la zona.

Mentre i polacchi risalivano le Marche verso Loreto ed il CIL si allineava verso Filottrano, la Brigata Maliella che aveva di fronte a sé uno spazio vuoto prosegue spingendosi fino al fiume Potenza ed il 3 Luglio occupa Tolentino e San Severino. Il 3 luglio la Brigata si scontra con i tedeschi a Castel San Pietro. Un gruppo espugna Serralta per aprire la via verso Cingoli, l’altro occupa Aliforni bloccando la strada verso Frontale. Facendo da cerniera, la brigata prende contatto con gli inglesi (il 120° Reggimento lancieri) lungo la strada San Severino-Castel Raimondo, e dalla loro sinistra, con il CIL lungo la S. Severino Tolentino.

È da notare che in tutta questa avanzata la difesa tedesca usava molto l’artiglieria mobile mentre una brigata disponeva solo le armi di piccolo calibro. “Quindi era costretta ad operare nelle ore notturne mediante rapide azioni di sorpresa”. (  La Guerra nelle Marche 1943-44, Sergio Sparapani).

(Nota a parte La brigata Majella ebbe anche un compito importante di coordinarsi con le formazioni partigiane del luogo, operazione che comportava anche grossi problemi. Alcune formazioni si aggregarono alla Majella, e solo ai partigiani marchigiani fu concesso di entrare a far parte del corpo. In quella zona  c’erano   diversi campi di concentramento da dove erano usciti prigionieri di diversi paesi. Fu affidato alla Majella anche  il compito di disarmare  dei gruppi non affidabili. Nel diario del colonnello Lewicki viene ricordato un episodio di cui non c’è traccia nel diario del comandante Troilo.

Lewicki  racconta che a Matelica una pattuglia venne sorpresa da una compagnia tedesca e vi fu uno scontro a fuoco. Io allora ero a Matelica e non ho avuto mai notizia di questo episodio.

Però un episodio analogo accadde, sul fronte di Matelica, a Cerreto d’Esi. Questa località, abbandonata dai tedeschi si era trovata nella terra di nessuno  perché le truppe alleate erano ritornatealla base di Matelica. Era rimasta nel paese una pattuglia partigiana. Ci fu effettivamente un attacco tedesco notturno, vennero presi prigionieri alcuni partigiani, all’uscita del paese ci fu uno scontro a fuoco, dove morì   il partigiano di guardia, Giuseppe Chillemi, alcuni partigiani si salvarono sfuggendo la cattura nel momento dello scontro, ma tre di essi furono trascinati via ed alcuni giorni dopo uccisi per impiccagione.

 Cerreto d’Esi dista da Matelica solo sette km ed i reparti alleati che lo avevano conquistato  erano posizionati a Matelica. Forse l’episodio citato dal Colonnello Lewicki  potrebbe essere proprio questo. Ma i partigiani tenuti prigionieri non erano abruzzesi ma marchigiani ed il partigiano messo di guardia che fece fuoco sulla pattuglia tedesca era siciliano). 

Il 19 luglio fu conquistata . Gruppi tedeschi si erano ritirati ad Apiro nella zona che nei mesi di Febbraio e Marzo era controllata dalla formazione partigiana del Comandante Agostino.

Cingoli fu conquistata e poi ripresa dalle truppe italiane e dai reparti polacchi. In quelle operazioni  la brigata Majella ebbe il suo primo caduto in terra marchigiana. Secondo il diario di Lewicki furono gli abruzzesi ad entrare a Castel San Pietro. Furono proprio sotto le operazioni della Brigata Majella che andava da Apiro, Poggio San Vicino, Poggio San Romulado- Almatano, il 15 luglio le forze della Majella li contrastavano a Santa Maria Candelora, a Frontale ed a Fornaci.

Questa azione sull’altopiano del San Vicino dove esistevano solo piccoli paesi (ed alcuni storici fanno confusione perché qualcuno di questi paesi ha nomi diversi) può sembrare un dettaglio piccolo ed insignificante. In realtà il San Vicino domina un nodo di strade che passano infossate fra le montagne e che sono di grande importanza strategica: una è la strada della Valle Esina, la 76, che dalla Flaminia per Fabriano porta ad Ancona; un’altra porta a nord di Fabriano per Arcevia e Pesaro: un’altra ancora, la Settempeda, va a sud verso la valle del Potenza e verso un passo di Ussita che porta a Spoleto ed a Roma. Da qui si capisce l’importanza di stanare  in alta montagna le formazioni dotate di artiglieria che possono controllare queste strade. La battaglia di Cingoli ha bloccato tutto il fronte ed il comando polacco decide di portarsi in avanti a Cupramontana, per controllare la strada di comunicazione con Ancona e difendere così il fianco alle formazioni che si dirigono su Ancona.

A questo scopo l’intera brigata disseminata su un vasto fronte viene radunata a Poggio San Vicino, liberato il 18 luglio, dopo due giorni di combattimento. Il 19 è la volta di Apiro, il giorno stesso viene attaccata Cupramontana.

Viene così liberata la via verso Ancona, che in mano ai tedeschi avrebbe potuto essere molto pericolosa per le formazioni polacche che stavano faticosamente operando per circondare la città.In un mese la brigata Majella si era portare dal fiume Chienti all’Esino attraverso le montagne dell’Appennino. L’apporto dei patrioti della Majella è singolare ed importante, sia per la loro mobilità, sia per il contatto con le popolazioni e con i partigiani marchigiani, sia per  la capacità di muoversi con gruppi autonomi. Così il Colonnello Lewicki ricorda la qualità delle operazioni svolte dalle diverse compagnie della Majella: “Operando in completo isolamento (reparti più prossimi si trovano a 10-15 km), e pur avendo dinanzi un nemico più forte svolge una tattica offensiva e non solo non resta indietro rispetto alle altre unità vicine, ma costantemente cerca di spingersi in avanti laddove lo consente il terreno. Tale condotta era naturalmente rischiosa, esigeva una notevole vigilanza e prontezza continue. Ma l’elasticità della formazione, le profonde azioni ricognitive e la larga utilizzazione dei servizi informativi ne diminuivano il rischio fornendo nel contempo al II Corpo ed all’VIII Armata preziose notizie”.

Subito dopo la Brigata occupa Montecarotto, procedendo verso nord sulla strada 76 Vallesina. Montecarotto per la sua posizione domina la strada ed è un centro di la base logistica dei nemici. A Montecarotto non giungono i rinforzi e la brigata subisce un duro contrattacco delle forze tedesche il 27 ed il 28 Luglio. Al centro dello scontro si trovò il presidio dell’ospedale. Lo scontro notturno avvenne all’interno a distanza ravvicinata. Il 29 continuarono i combattimenti con l’intervento dell’artiglieria. Dopo quattro giorni d’assedio arrivarono i paracadutisti della Nembo (del CIL) a sostenere lo sforzo della Majella.

Lewicki nella sua relazione definisce l’assedio di Montecarotto: “Una delle più notevoli e brillanti operazioni condotte dalla Majella. L’operazione svolta da un reparto di partigiani relativamente debole (100/150 uomini) assicura nei giorni critici il lavoro dei genieri sulla strada numero 76, su una linea di più di 20 km da Jesi a Serra San Chirico”.

Nel giudizio finale si conclude che senza l’impegno della Majella, ed il controllo della strada 76, le forze impegnate a circondare Ancona si sarebbero dovute ritirare Per rafforzare il possesso della 76 il fronte avanzò e fu compito della Brigata occupare Arcevia. Nella nuova linea consolidata la brigata assolveva al compito di controllare un fronte di 20 chilometri, tra Canduo e Pantana.

Nella notte tra il 17 ed il 18 Agosto venne conquistato Montesecco. Il 20 Agosto a Piticchio di Arcevia viene costituito il XV plotone formato esclusivamente da partigiani marchigiani e comandato dal sottotenente La Marca, che morirà nella conquista di Pesaro. Ancora una volta viene rinviato il cambio della formazione la quale viene autotrasportata a coprire l’avanzata dei polacchi verso il fiume Metauro.

Invece di essere sostituiti furono trasferiti a Fano. Il 2 settembre in appoggio ad una formazione di blindati inglesi, i patrioti della Majella entrarono a Pesaro.

Finalmente dopo 80 giorni di marce e di combattimenti, tutti in prima linea, la Brigata fu trasferita a Recanati per un periodo di riposo e di riorganizzazione.

Per comprendere bene le condizioni difficili e la qualità particolare del servizio reso dalla Brigata Majella dobbiamo leggere la relazione del Colonnello stesso che all’inizio non era favorevole all’impiego di patrioti abruzzesi: “Mentre i reparti regolari venivano cambiati nella prima linea entro determinati brevi periodi non superiore alla ventina di giorni, quelli della Majella restavano in azioni in linea senza venir cambiati anche per più di due mesi. E ciò in condizioni fisiche molto difficili. L’estensione del settore da sorvegliare affidato ad un esiguo numero di uomini faceva sì che i singoli reparti della brigata erano costretti ad operare a distanza di alcuni km gli uni dagli altri, senza collegamento tattico e tecnico. In caso di assalto nemico ciascuno di tali reparti doveva contare unicamente sulle proprie forze senza speranza di qualsiasi aiuto. Conseguentemente tutti i reparti della Majella dovevano stare sempre in allarme. (…) In conseguenza di questo costante stato di allarme nonché dell’enorme sforzo fisico (“La Majella”) operò sempre su terreno montuoso”.

Al Colonnello Lewicki sfugge che un’azione di controllo così importante alle spalle delle formazioni regolari fosse possibile, non perché il terreno era montuoso, ma perché i patrioti della Majella avevano un rapporto particolare con le formazioni partigiane locali e con le popolazioni dalle quali traevano aiuto e sussistenza.

La Brigata Majella potè operare in situazioni così difficili perché tenne un collegamento con quei territori montuosi del centro Italia che avevano dato luogo a forme di gestioni civili  autonome, mai veramente controllate dai tedeschi. Questa particolarità è sfuggita alla storiografia che ha dato più valore alle azioni armate (e la Majella ne ha fatte di più di ogni altra formazione partigiana) ma ha misconosciuto se non addirittura polemizzato con la cosiddetta resistenza civile.

Come dice Pietro Scoppola: “Il fenomeno della lotta armata , che conserva il suo valore, non può essere isolato dalle innumerevoli forme di “resistenza civile”. Vi è una ricostruzione del basso delle ragioni della convivenza e perciò della identità collettiva che lo storico deve attentamente osservare”. E questa particolarità è confermata da un fatto che si tende, per carità di patria ad ignorare. La Majella fu attiva nel disarmare quelle formazioni che si proclamavano partigiane ma che non rispondevano alle regole ed ai fini patriottici della Resistenza.

Finalmente, dopo 80 giorni di servizio continuo in prima linea, la Majella viene trasferita a Recanati. Il comandante Ettore Troilo si recò in Abruzzo per arruolare nuovi volontari. Si cercò anche regolarizzare la posizione della Brigata nei confronti dell’esercito italiano ed il 2 Novembre i patrioti abruzzesi ripartirono per il fronte. La Brigata fu riaggregata ai polacchi a Laterina in provincia di Arezzo. Per svolgere la stessa funzione nella zona montuosa a ridosso della offensiva degli alleati in Romagna. Il primo combattimento avvenne per la conquista di Monte Castellaccio, posizione dominante dello schieramento tedesco conquistato con un assalto frontale, nei giorni dal 20 al 22 Novembre. Seguì la liberazione di Brisighella, che avvenne in cinque giorni di combattimento dal 1 al 5 dicembre, con assalti alle postazioni di Monticino, Belvedere, Rocca, Torre, Monte della Siepe, che sovrastano l’abitato di Brisighella.

Fu conquistato poi Monte Mauro, posizione contro cui si erano infranti precedenti tentativi polacchi.

La sua presa determinò la caduta di Faenza. I combattimenti seguirono lungo il fiume Senio. Dice Sergio Sparapani nel suo libro “La Guerra nelle Marche”: “Fino all’impiego in campo del gruppo di italiano di combattimento Friuli, la Brigata fu la sola formazione italiana nello schieramento alleato e la sola che ebbe la responsabilità esclusiva di un settore del fronte, nel quale operò in modo autonomo, pur sotto le direttive tattiche e strategiche del corpo polacco, da cui militarmente dipendeva”.

Finalmente ci si accorse della Brigata Majella. Il Comandante Troilo fu invitato a Roma dal Ministro della Difesa  Gasparotto. La relazione del generale polacco Kazimierz Wilniowski, afferma: “Dislocata alla sinistra del settore della Prima Brigata fucilieri Carpati, (la Brigata Majella) ha avuto parecchi bei successi in condizioni difficilissime di terreno occupando molte importanti quote e località come Castellaccio, Bicocca, Brisighella, Monte Rotana, Monte Sacco, Monte Mauro, Monte della Volpe. Affermo che in questa azioni i soldati della “Brigata Majella” hanno dimostrato il più alto valore nel combattimento, morale altissimo e bravura militare, consapevoli della finalità del combattimento e del sacrificio in difesa della vera libertà delle Nazioni e dell’uomo.

I Soldati della Brigata Majella sono degni successori delle tradizioni dei loro Padri, che combatterono sul Monte Grappa, al Piave ed a Vittorio Veneto e dei loro antenati che lottarono per la Libertà e la Democrazia sotto il comando del grande Giuseppe Garibaldi (…)”.

Nel marzo 1945 la Brigata raggiunse una forza totale di circa 1326 uomini, mobilitata nuovamente il 10 aprile presso Faenza, avanzò lungo la via Emilia sostenendo combattimenti a Villa Mosconi, a Monteceneri, a Castel San Pietro. All’alba del 21 aprile 1945 entrarono a Bologna tra le primissime truppe liberatrici. Nei giorni successivi un reparto si spinse a nord entrando ad Asiago il primo Maggio. Il 15 Luglio la Brigata si sciolse con una solenne cerimonia a Brisighella. Finalmente riconosciuta ed accettata dai ministri, da sottosegretari, dai generali, dai prefetti, dall’Arcivescovo di Ravenna, e dai reparti alleati polacchi ed inglesi.

Bartolo Ciccardini

Il Popolo, 70 anni dopo (Numero 3 del 28 Novembre 1943)

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Il Popolo, 70 anni dopo (Numero 2 del 14 Novembre 1943)

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Buona lettura a tutti!

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