Nel centenario della morte di Don Minzoni
Pubblichiamo la bellissima relazione tenuta venerdì 19 maggio 2023 da Pier Luigi Castagnetti in occasione dell’incontro, nel centenario della morte di don Giovanni Minzoni, promosso da Masci, Agesci e ACI a Roma alla sala della Biblioteca del Senato.
L’incontro è stato aperto dal sen.Lorenzo Basso, da Massimiliano Costa presidente Masci e da Francesco Scoppola e da Roberta Vincini, presidenti del Comitato nazionale Agesci e Francesco di Fonzo, presidente nazionale del FSE. Una relazione che ha davvero reso giustizia all’impegno religioso, pastorale, educativo, ma anche civile e di testimonianza limpida contro il fascismo, del grande Arciprete di Argenta, ucciso da una squadraccia fascista il 23 agosto 2023. Prima di lui era intervenuto il card .Arrigo Miglio ,che aveva soprattutto messo in evidenza la dimensione religiosa e di educatore di don Minzoni, a mio avviso relegando sullo sfondo il fatto – messo invece in luce da Castagnetti che ha fatto anche riferimento ai “ribelli per amore”, i Partigiani cristiani – della sua indistinguibile dimensione religiosa ed educativa da quella di fermo oppositore alla ideologia della violenza del fascismo, ricordando anche come il regime si sentisse più’ minacciato da chi si richiamava al Vangelo che da chi si ispirava al marxismo.
E’ in corso la causa di beatificazione di don Minzoni (postulare padre Gianni Festa, domenicano) che potrebbe diventare il primo Santo dello scoutismo, come ha detto nel suo intervento (a distanza) Vittorio Pranzini, tra i promotori della causa di beatificazione insieme al Masci, alla diocesi di Ravenna-Cervia, ad Agesci, a Scout d’Europe e alla parrocchia di Argenta. C’è stato anche l’intervento del bravissimo direttore dell’Archivio del Senato, Dr. Giampiero Buonomo che ha ricostruito la storia della denuncia contro il generale del Bono proposta davanti alla’ Alta Corte di Giustizia dal direttore del Popolo Giuseppe Donati, che tra gli altri delitti come quello di Matteotti e Amendola, imputava alla CeKa anche l’assassinio di don Minzoni .ricordando che “è da quel sangue che è germogliata la semente della Repubblica”.
Don GIOVANNI MINZONI di Pierluigi Castagnetti
Don Giovanni Minzoni è stato sicuramente un martire della fede e, dunque, un santo. Conosciamo la lunghezza del percorso canonico per questo riconoscimento, le condizioni, il vaglio giustamente rigoroso, ma esiste un’intelligenza popolare – alludo in particolare a quella del Popolo di Dio – che non sbaglia e che lo aveva già proclamato tale, se solo pensiamo ai suoi partecipatissimi funerali ad Argenta e a Ravenna. Le cronache di allora dicono che c’era tutta la città. Don Giovanni aveva incrociato, infatti, ai suoi inizi, quando ancora pochi se n’erano fatti un giudizio preciso, quella che si sarebbe rivelata come una delle immagini storiche del Male nel Novecento, il fascismo, e come discepolo di Cristo non ha esitato a reagire nel modo più risoluto. So bene che in questi casi sono consigliati prudenza e discernimento per non cedere, pur inconsapevolmente, al rischio di confondere il piano della valutazione di fede con quello della valutazione storica e politica. Ho presenti, ad esempio, le motivazioni adottate dalla Chiesa per la beatificazione di Odoardo Focherini e di Teresio Olivelli, così pervicacemente escludenti ogni giudizio storico per due martiri (peraltro anch’essi legati alla storia del movimento scoutistico italiano) della fede, ma martiri specificatamente della violenza politica e, dunque, della civiltà umana (a tale proposito, p. Bartolomeo Sorge, tre anni fa, introducendo un libro su Piersanti Mattarella, espresse l’auspicio che si aggiungesse al criterio del “martirio di fede”, quello “di martirio civile”). Nel caso di don Minzoni, peraltro, non è necessario ricorrere a categorie innovative perché, anche quando nella testimonianza della sua vita emergono valutazioni su movimenti politici, esse sono sempre espresse in nome della fede e del Vangelo. Basta chiedersi, infatti, perché i sicari fascisti lo abbiano ucciso, riempiendo di botte lui e il ragazzo dell’oratorio che lo accompagnava, Enrico Bondanelli, che fortunatamente sopravvisse, quella notte del 23 agosto del 1923. Il racconto dello storico don Lorenzo Bedeschi è, sicuramente, quello più preciso anche di dettagli importanti. Don Giovanni venne ucciso esattamente un anno prima di Giacomo Matteotti, e questi due delitti fascisti sono i primi e più importanti di una lunga serie, dal valore intenzionalmente emblematico, seppur molto diversi l’uno dall’altro, commissionati verosimilmente dallo stesso mandante e eseguiti dagli stessi sicari, come denunciarono sin da subito Il Popolo e La Voce Repubblicana. Ma perché proprio don Minzoni? Fondamentalmente perché il fascismo non ha mai sopportato l’espressione di un giudizio morale su se medesimo, da parte di chicchessia e in particolare di cristiani. Un giudizio morale che colpiva il nucleo genetico del fascismo, come ideologia dell’odio e della violenza. “Mille volte meglio Bordiga di Sturzo! Con il primo si fa a botte, ma ci si intende, con i preti no!”. No, perché loro contestano il cuore, l’essenza del fascismo in nome del Vangelo. Da un lato la violenza come facitrice di storia, dall’altro la violenza come distruttrice di storia, cioè dell’uomo, dell’”umanità dell’uomo” (Vassilij Grossman). E in don Minzoni i due livelli si sono sempre sovrapposti e integrati, la fede e la storia. Egli emanava un irresistibile “fascino spirituale” (San Giovanni Paolo II). Un magnetismo che catturava buona parte dei ragazzi e dei giovani di Argenta, che vedevano in lui la semplicità, la coerenza e la credibilità della proposta del Vangelo. Il Vangelo come Parola. Il Vangelo come vita vissuta. Il Vangelo per la sua attualità e, dunque, attuabilità. Il Vangelo come condivisione, come possibilità vissuta insieme. Il Vangelo come antidoto alla violenza e all’egoismo. (“Non per odio, ma per amore, siamo entrati nella lotta partigiana” diranno più tardi resistenti come Benigno Zaccagnini o Ermanno Gorrieri). Il Vangelo come antidoto all’ingiustizia. Quale ingiustizia? Quella che lui aveva conosciuto sul Piave, in guerra, dove si era arruolato volontariamente per stare vicino a chi subiva l’insulto della violenza, dell’ingiustizia, del sacrificio della vita. La guerra è stata, infatti per lui, il luogo in cui vedeva i giovani catturati da una generosa passione patriottica e dove, come Mazzolari, Roncalli e tanti altri, scopri all’incontrario un altro modo di esprimere l’amor patrio, quello dell’amore, della fraternità, della pace. Diciamo pure, quello della conversione. Rientrato dalla guerra non ha potuto non riflettere sulla sua eredità, cioè sull’immenso volume di dolore e di morte imparagonabile alla vacuità del presunto bottino. E ingiustizia, e fame, e sopraffazione, e violenza che continuavano anche a guerra finita, e continuavano a produrre morte. Il suo fascino spirituale che seduceva giovani e adulti, altro non era, dunque, che il fascino di una conversione al Vangelo. E, allora, ecco che don Giovanni decide di impegnarsi in due settori, quello della formazione spirituale e culturale e quello delle opere di carità. Vedeva i socialisti impegnati ad aggregare consenso fra la povera gente e si chiedeva “ma la povera gente, non è la gente del Vangelo?” e, “allora, perché io non sono là?”. Decide allora di stare con la sua gente, non solo in mezzo alla sua gente, ma dalla parte della sua gente, destando sin da subito una sorte di invidia-preoccupazione proprio da parte dei socialisti che lo vedevano come un potenziale concorrente nella raccolta di consensi tra i giovani, e ostilità crescente da parte dei fascisti, non solo dei capi locali, ma di uomini vicinissimi a Mussolini come Balbo e De Bono. Nel mentre arrivavano alle sue orecchie notizie dell’aggressione fascista alla Casa del Popolo di Faenza e al sindaco PPI Zucchini di quella città, nel marzo del 1923 e, un mese dopo, dell’assalto fascista a Forli, alla processione di San Francesco Saverio. Vede così materializzarsi rapidamente l’incubo che si era insinuato lucidamente nella sua mente, di un precipitarsi della situazione, con l’avvento di un’ideologia dell’odio sociale e della violenza. Un’ideologia a suo modo tirannica come in genere sono le ideologie, nel senso che vuole tutto per sé, vuole soprattutto l’anima dei bambini e dei ragazzi: le adunate, le sfilate del sabato, l’indottrinamento, la forza come elemento seduttivo e formativo. Sul terreno dell’educazione bisognava reagire senza perdere tempo, bisognava non distrarsi e concedere terreno al competitore per non essere poi sorpresi dalle conseguenze inevitabili. Ecco, don Minzoni fu tra i pochi che, con lucido senso storico, coglie sin da subito la potenzialità distruttiva del fascismo, dei baluardi etici del cristianesimo. Saputo da don Emilio Faggioli, fondatore del movimento scoutistico a Bologna e in varie altre città della regione, del modello educativo fondato sull’esperienza, sulle relazioni, sul rapporto con le persone e con la natura, decide di fondare due reparti nella sua parrocchia, e poco importava se i gerarchi locali gli avevano fatto capire che l’iniziativa non sarebbe stata gradita. Altri amici, già murriani, cioè democratici cristiani e ora sturziani e popolari, gli suggeriscono come promuovere iniziative sociali per offrire lavoro ai suoi ragazzi, soprattutto cooperative di lavoro: la Romagna aveva già una rete molto attiva e vivace di mutue assicurative, cooperative nel mondo rurale e in quello edilizio, banche popolari. Ma la ripresa di contatti, in particolare con alcuni sacerdoti della diocesi di Ravenna, e di laici che aveva conosciuto ai tempi della partecipazione alle varie iniziative di Murri, come Eligio Cacciaguerra di Cesena e Giuseppe Donati di Faenza, lo avevano messo a luce delle varie iniziative dei Popolari, per contrastare sul piano sociale e politico, la diffusione del fascismo, soprattutto nelle realtà contadine prevalentemente cattoliche. E, per solidarietà con Donati decide di sottoscrivere un abbonamento, anzi due, a “Il Popolo”, quotidiano del PPI che lui dirigeva e a iscriversi alla sezione di Ravenna del partito stesso, come testimonia Mario Scelba che, come segretario di Luigi Sturzo, custodiva il tesseramento. Correva, infatti, l’anno 1923, proprio quando Sturzo convoca il congresso del suo partito a Torino, per promuovere l’uscita dal governo di quegli alcuni popolari che a titolo personale vi erano entrati, avendo lui colto l’insidia della “politica chiesastica” del nascente regime (riammissione delle congregazioni religiose nell’assistenza ospedaliera, dei cappellani nell’esercito, autorizzazione alle funzioni religiose all’esterno degli edifici ecclesiastici,…): “l’anima non è in vendita”, era lo slogan dei popolari. Don Giovanni Minzoni, non aveva una specifica intenzione di impegnarsi direttamente nell’attività politica, per quanto allora diversi sacerdoti fossero militanti del PPI, ma non era disponibile a transigere sul giudizio storico che i credenti avrebbero dovuto esprimere sul nascente regime, né a rinunciare alle attività per fare crescere nei suoi ragazzi una lucida coscienza critica su quanto stava accadendo. Otto giorni prima di essere assassinato scriveva a un suo confratello parroco: “Quando un partito (il fascista), quando un governo, quando uomini di grande o piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano una idea, un programma, una istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre”.
Possiamo, dunque, dire che don Minzoni era consapevole dei rischi che correva, eppure non volle rinunciarvi per fedeltà a una responsabilità di coerenza che non portava come un peso, al contrario come un’opportunità per la sua santificazione. Il 15 maggio 1918, nel diario di guerra annotava: “Oggi è la festa della Democrazia Cristiana. Ero ancora giovinetto, studente di ginnasio, quando mi infervoravo nelle nuove idee democratiche soleggiate dal Vangelo di Cristo. Comprendevo poco; pure il mio cuore pulsava forte, e sognavo le future lotte in mezzo alla società, lotte che avrei sostenuto con tutte le energie della mia giovinezza in nome di Cristo. Quanti sogni confidati agli amici, quante discussioni sostenute con ardore di neofita. Oggi ripensandovi, sento che la mia vita di seminario è stata una vera palestra per il cuore e per l’intelligenza”. E, quando tornò a casa da Bergamo, dopo il primo anno della Scuola Sociale, scriveva: “Mi sono persuaso di una cosa, ed è che senza una base di santità non si può fare assolutamente un’azione, una propaganda intensa ed efficace nel campo religioso, morale ed anche economico, perché troppe sono le difficoltà…Solo un alter Christus può gettarsi nell’azione e riuscirne vittorioso…”. Qui sta la chiave della sua personalità e, in ultima analisi, della ragione profonda per cui è stato assassinato dai fascisti.


