In ricordo di Francesco Daveri
Francesco Daveri (Nome di battaglia Emilio) nasce a Piacenza il 1° gennaio 1903. Frequenta il Seminario vescovile di Piacenza fino al ginnasio. Terminato il Liceo, entra nell’ottobre del 1919 nel Collegio Alberoni, conclusi gli studi s’iscrive alla Facoltà di giurisprudenza nell’Università di Parma, mantenendosi col proprio lavoro. Nel 1921 abbandona la carriera ecclesiastica ed entra a far parte della Gioventù cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI). Nell’ottobre del 1922 diventa membro del Consiglio della Federazione diocesana, di cui è nominato Segretario per la propaganda nel 1924 e Segretario per le missioni nel 1926. Laureatosi a pieni voti nel 1926, dopo un biennio di pratica legale, apre uno studio in Piacenza insieme all’Avv. Giuseppe Arata. Dal 1927 al 1929 è nel gruppo dirigente della FUCI, poi, dal 1930, la sua adesione alle federazioni e ai circoli cattolici si intiepidisce, in concomitanza con il progressivo accendersi della sua militanza antifascista. Accanto all’impegno nell’Azione Cattolica, nei primi anni 30 Daveri comincia ad allacciare rapporti e relazioni con molti antagonisti del regime. L’entrata in guerra sollecitata il costituirsi di un primo gruppo clandestino nel quale opera Daveri dal giugno 1940 in duplice forma; culturale e politica. L’incontro dei singoli esponenti avviene alla mensa del povero allestita alla domenica a Palazzo Fogliani. Sotto i piatti portati ai commensali passano le comunicazioni, le segnalazioni alle formazioni partigiane. Il sistema dura fino alla Liberazione, a pochi passi dalla Prefettura repubblichina. Nel dicembre del 1942 la sua famiglia è sfollata a Bobbio (PC), ma decide di rimanere a Piacenza: qui infatti può svolgere al meglio sia la professione di avvocato che l’attività di oppositore al fascismo. Il 26 luglio 1943 il Daveri esplode dopo essersi dovuto contenere così a lungo ed in Bettola brucia l’effige del Duce dopo di averla tolta dalla cornice e di aver ad evidente scopo di vilipendio, gettati i frammenti ancora brucianti dal balcone della pretura sotto il quale si trovavano diverse persone e assistevano giubilanti e ghignanti. Interviene presso il prefetto De Bonis per far scarcerare coloro che avevano manifestato tra le vie del capoluogo per la caduta di Mussolini. Il 1º settembre lo stesso De Bonis lo nomina Membro della Giunta provinciale amministrativa. Dopo l’8 settembre è tra i fondatori del CNL di Piacenza, che si costituisce e riunisce periodicamente nel suo studio. Attivo su diversi fronti, grazie alle sue conoscenze all’Arsenale militare ed in varie caserme piacentine gestisce ed organizza il rifornimento di armi per le prime bande partigiane dislocate in Val Nure ed in Val Trebbia. Il Commissario Prefettizio del Comune, dott. Giovanni Pistola si era proposto con energia di ristabilire l’ordine dopo il “delittuoso colpo di Stato” in quanto “il pazzesco gesto aveva sovvertito l’ordine, la disciplina, la dignità di tutti i rapporti della vita pubblica”. Ma sopratutto occorreva “la ripresa degli amichevoli rapporti con le locali Autorità Militari Germaniche, stante che, ben a ragione, il valoroso e forte popolo tedesco doveva essere considerato non come nemico, ma come amico ed alleato” . Il Ministero della Cultura Fascista pensava in seguito a deformare la coscienza pubblica con imposizioni, alla stampa cittadina. Il Daveri ora viene attentamente sorvegliato. Il Tribunale Straordinario il 30 gennaio 1944 spicca il mandato di cattura, per il fatto di Bettola. Avvisato in tempo, si nasconde in Città, assumendo completamente l’imputazione, soltanto addolorato perchè alcuni “avevano vilmente mentito per acquistarsi dei meriti presso i fascisti” e “scrisse una serie d’interessanti appunti riguardanti l’istruttoria eseguita e il processo che si doveva svolgere”. Il processo si chiude in contumacia il 4 marzo 1944 con cinque anni di reclusione insieme all’amico e compagno Raffaele Cantù. Daveri indirizza un’aspra lettera al Prefetto Fossa minacciandogli la rappresaglia delle forze partigiane, lettera diffusa in città. Per dieci giorni dal nascondiglio diffonde messaggi ed istruzioni ad amici della Resistenza. Il 15 marzo 1944 si avvia verso Milano sotto il nome di Lorenzo Bianchi, ma sui monti del comasco, diretto a Mendrisio viene catturato dalle guardie di frontiera. Lorenzo mostra al milite la fotografia dei suoi cinque bambini scongiurando d’essere liberato. Il carceriere si commuove, le stesse guardie confinarie l’aiutano nell’espatrio; Lorenzo giunge a Chiasso il 16 marzo 1944 è visitato, inoltrato a Bellinzona il 20, prendeva stanza alla Casa d’Italia in Lugano ritrovando Don Bruschi, Clerici, Malavasi, Lanfranchi. Dopo qualche giorno si trasferisce al Campo rifugiati di Balerna, ma poco dopo ritorna a Lugano. Richiama da Piacenza la sua collaboratrice fidata Bruna Tizzoni e a Mendrisio, accordandosi col vice Console inglese Cirillo De Garston, agente dell’Intelligence Service, organizza un servizio informativo per il piacentino e il nord-Emilia. Dapprima la Tizzoni porta le informazioni da Piacenza con undici espatrii e rientri clandestini. Ma sorvegliata si stabilisce a Milano aiutata dal maggiore Adolfo Longo, uno dei sette che costituiscono il Servizio Informazioni Militare in Piacenza; l’otto settembre 1943, riceve i dati dal piacentino, compila i rapporti consegnati al Daveri in Svizzera.Nello stesso mese Ferruccio Parri in persona gli affida l’incarico di gestire gli scambi di denaro, armi e approvvigionamenti tra Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia. Il 4 agosto è nominato anche Ispettore militare per il Nord Emilia. Emilio è ricercato ovunque nonostante la sua intraprendente abilità. Il 18 novembre veniva catturato e tradotto nel carcere di S. Vittore. Per un principio di congelamento al piede viene ricoverato in infermeria insieme al professor Brambilla del Comitato Militare Lombardo del C.L.N. che lo descrive “come uomo di virtù superiori, morali e intellettuali. Di squisita sensibilità e di bontà angelica che aveva chiaro anche il senso politico”. A nulla servono i tentativi ripetuti, disperati, per liberarlo interessando anche il Consolato inglese da Lugano. Il 17 gennaio 1945 Daveri viene deportato a Bolzano. Il 4 febbraio 1945, è incluso nell’ultimo convoglio di deportati italiani nei campi nazisti. Dopo un viaggio orrendo, stipati in cento per ogni vagone piombato, il convoglio giunge a Mauthausen il 7 febbraio in un rigidissimo clima. Incominciano le spogliazioni, le sevizie sino all’applicazione della piastrina n. 126.054 sigillata al polso sinistro.Verso il 13-14 febbraio viene assegnato al campo Gusen II distante circa 4 km. da Mauthausen, destinato ai nuovi venuti in luride baracche segnate dal n. 21 al 24. Nel Gusen I, II, e III, circa 10.000-20.000 detenuti, sono sacrificati in cave di pietra ed imprese facenti parte dell’industria bellica. “La sveglia avveniva alle ore 5,15, l’inizio e la fine del lavoro dipendevano dalla lunghezza delle giornate, dallo spuntare del giorno fino al calar della notte. I detenuti venivano noleggiati dalle imprese belliche con una durata media di nove mesi di vita per i più robusti”. L’ufficio centrale di amministrazione economica registrava diligentemente anche “Ricavi dall’utilizzo razionale dei cadaveri: oro ricavato dai denti, vestiario, oggetti di valore, danaro”. Tra le spese pone i costi di cremazione dei cadaveri ed eventuali utilizzi ricavati dall’utilizzo delle ossa e delle ceneri. Daveri lavora nella cava di S. Giorgio, denutrito, estenuato dalla fatica, percosso, resistendo così per due mesi di martirio. Sfinito viene ricoverato all’infermeria dalla quale ne usciva il 30 marzo febbricitante. Lo prende una disperata volontà di vivere almeno sino alla liberazione che sente assai vicina, vuole almeno vedere una sola volta i suoi figli, e si sforza di riprendere il duro lavoro, non resiste e viene bastonato. “Non vede quasi più: riconosce i compagni dalle voci. Il mattino dopo, il mattino dell’11 aprile 1945 o forse del 12 (comunque fra il 10 e il 12) il suo compagno di baracca, Franzoni, verso le 7, sa dal meridionale Bonucci che Lorenzo Bianchi è morto durante la notte e il suo corpo si trova nel mucchio dei cadaveri che, gettati dalle finestre, sono a fianco della baracca dell’infermeria. Franzoni si avvicina furtivamente e vede che in terra, vicino ad altri morti, c’è un povero corpo ignudo, scheletrito, la bocca aperta, l’occhio sinistro sbarrato e l’occhio destro come tumefatto da un’ultima percossa. Ha segnato sul petto a matita copiativa, il n. 126.269 la matrìcola di Lorenzo Bianchi”.
L’atto di decesso porta la data del 13 aprile 1945 alle ore 6,50 e il numero di matricola 126.054. Dopo la liberazione gli è stata conferita la Medaglia d’argento al valor militare alla memoria, laMedaglia d’oro al valor e l’Attestato di benemerenza da parte del Comando Alleato.