VIVERE NELLA RESISTENZA. Una questione morale. 25 Aprile 2013 a Savona
La festa di Liberazione che ci accingiamo a vivere, cade nel settantesimo anniversario della firma
dell’armistizio, evento che sancì di fatto l’inizio della lotta armata contro i nazifascisti. Specifico
lotta armata perchè la Resistenza, in quanto ribellione dell’Uomo contro un regime dove violenza e
soppressione delle libertà erano legge, era iniziata molto tempo prima e aveva già pagato il pegno
del sangue, del carcere e del confino.
Nella concezione collettiva tuttavia, da sempre, la visuale che maggiormente rimane del periodo
resistenziale è quella della lotta armata. La stessa legge del tempo con cui si riconosceva lo status di
“partigiano” era legata alle azioni compiute in battaglia. La tendenza ad accentuare questa visione
della Resistenza è legata al forte scontro politico ed ideologico che andava lacerando l’eredità
resistenziale fin dai primi anni della neonata Repubblica e che sarebbe poi proseguito, in modi e
forme diverse, fino ai giorni nostri. Pietro Scoppola nei suoi tesi ha ben analizzato come le identità
collettive nel nostro Paese si sono formate negli anni della ricostruzione su circuiti distinti. E’ da
questo dato che occorre partire per analizzare la difficoltà di creazione di un sentimento di identità
nazionale: apparteniamo ad una democrazia non in un senso comune, ma su binari separati.
Con la pubblicazione delle
lettere dei condannati a morte, negli anni cinquanta, emerse poi un
nuovo capitolo della vicenda resistenziale che in qualche modo scavalcava la lotta armata: la
componente morale.
Il martire cattolico Teresio Olivelli, nella sua Preghiera del Ribelle, usò per primo l’espressione
ribelli per amore
che ben sintetizzava per i cristiani la rivolta morale che portò tanti uomini e tante
donne a dare il loro contributo alla causa della Resistenza. L’opposizione al regime era quindi
vissuta, fin dall’inizio, come una spinta primariamente di coscienza; nel primo manifesto che il
movimento Guelfo di Malvestiti e Malavasi, nato clandestinamente alla fine degli anni venti per
raccogliere le anime antifasciste del mondo cattolico, diffuse in piazza San Pietro nel maggio del
1931 in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario della Rerum Novarum, vi era
scritto che:
“…E’ illogico ed assurdo che, nel nostro secolo, i cattolici debbano essere chiamati all’ubbidienza cieca di un
qualsiasi potere in qualsiasi modo costituito, e nello stesso tempo alla più perfetta apatia, alla più stupida
indifferenza circa le origini e gli scopi di questo potere, abdicando al chiaro diritto preesistente”.
In queste parole è chiaro come la questione, prima che politica, sia di coscienza e tocchi le corde più
profonde dell’animo umano. Don Primo Mazzolari, in una lettera al professor Livio Olivieri nel
1955, scriverà:
«L’uomo libero e consapevole è sempre un «resistente», qualunque siano i tempi e i regimi. Ci son sempre cose
che non possono essere accolte dal galantuomo: c’è sempre una tentazione dell’ambiente e del tempo, che ci
minaccia in quello che abbiamo di veramente nostro e di più prezioso. Chi tira i remi in barca perché c’è bonaccia
in aria, non sa o dimentica che in ogni momento la nostra coscienza morale e cristiana è posta davanti a delle
scelte. La scelta crea la resistenza»
Quindi non è solo questione di vivere la Resistenza, ma di vivere nella resistenza. In quest’ottica la
moralità personale è declinata nel quotidiano.
Sempre inquadrando il nostro discorso in quel determinato periodo storico si aggiunge un fatto che
si deve tenere ben presente, ovvero l’immane dramma umano della guerra. E’ in questa situazione
umana e sociale che in quegli anni nacquero spazi di partecipazione fuori da logiche di schieramenti
ideologici e si espressero forme di solidarietà che si potrebbero definire antropologiche: dall’aiuto
dei contadini, alla solidarietà di quelli che nascosero gli ebrei, di coloro che aiutarono gli alleati, di
quelli che accolsero gli sfollati, la scelta che fu fatta della maggioranza dei giovani italiani di non
rispondere ai bandi di Salò…
Si espresse così una radicalità che non si può limitare alla lotta armata o ad una questione
ideologica. Non si poteva stare a guardare mentre tutto crollava.
E’ anche interessante il confronto che si può fare tra la Resistenza armata ed una qualsiasi guerra,
intesa come scontro che contrappone due eserciti: il fronte resistenziale era assai più vasto di un
normale esercito, esso non si limitava , come nel caso di quest’ultimo, a qualche leva della
popolazione impiegata in combattimento su un fronte territorialmente limitato; la Resistenza
coinvolgeva ogni città, ogni borgata, ogni cascina, ogni casa, e interessava tutta la popolazione che
abitava quei luoghi, in particolar modo le donne rimaste a presidio delle case e delle famiglie. Tutti
e ovunque erano coinvolti e quindi messi di fronte alla scelta. Vi è quindi un livello etico che
scavalca la lotta armata e da cui parte il vero significato identitario del 25 aprile.
Giuseppe Dossetti visse così nel profondo questa dimensione morale che nel dibattito alla
Costituente propose come articolo 3 della Costituzione il seguente testo:
«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà
fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».
La proposta non passò, tuttavia per Dossetti c’era qualcosa di più di una questione legislativa in
quelle parole. La sua vita infatti sarà l’incarnazione di questo atteggiamento morale, come grido
della coscienza in soccorso dell’umanità in pericolo e della stessa Chiesa.
Per poter correre in aiuto però occorre innazitutto capire i segni dei tempi e saperli leggere alla luce
della storia. Questo è il ruolo della figura biblica della “sentinella” che fino all’ultimo don Giuseppe
ci esortò ad interpretare come uomini e cristiani del nostro tempo.
Fare memoria allora non vuol solo dire ricordare; fare memoria vuol dire lasciarci interrogare dal
passato e capire quale significato assume alla luce di quello che viviamo oggi. Evitare ciò vuol dire
darla vinta all’indifferenza che, come disse Gramsci, è la peggior insidia per l’uomo. Essa è in tutte
le epoche la scelta più semplice da compiere e su cui, da sempre, fanno leva le spinte peggiori
dell’umanità.
Giorgio Masio