RENATO VUILLERMIN – Una testimonianza cristiana nella Resistenza
Renato Vuillermin nasce a Milano l’8 febbraio 1896, frequenta le scuole elementari a Racconigi (CN) e in seguito a Torino, dove il padre di origini aostane era stato trasferito in quanto vicecancelliere del tribunale, quindi si iscrive al Ginnasio Salesiano a Valdocco. Nel 1916 è chiamato alle armi nel corpo di sanità, tuttavia si offre volontario negli alpini. L’esperienza della guerra lo segnerà sia nella carne che negli affetti: lui rimane ferito al braccio e alla gamba sulle pendici dell’Ortigara, anche il fratello Ermete cade ferito mentre il terzogenito Fausto muore in Macedonia. Da questi eventi Renato esce con una profonda avversione ad ogni forma di violenza e quindi con la netta opposizione a quei movimenti di nazionalisti delusi che si andavano sviluppando a seguito del conflitto. Congedato nel 1919 Vuillermin si applica agli studi universitari nella facoltà di Scienze Naturali e trova lavoro nella redazione del quotidiano cattolico “Il Momento”, oltre che nell’insegnamento. Sempre in quell’anno è tra i primi aderenti all’appello ai liberi e forti di don Sturzo; con il Partito Popolare si impegna in comizi, aperture di sezioni e settimane sociali. Nel 1919 risulta tra gli eletti per il primo congresso nazionale del partito e insieme ad altri forma l’indisciplinato gruppo di sinistra che si contrappone all’estrema destra, naturale filiazione del circolo degli aristocratici piemontesi. Il PPI a Torino sarà infatti molto condizionato da questo gruppo “Tupinet” di cui faceva parte anche il barone Gianotti che nel 1924 sarà promotore del filofascista Centro Nazionale per il Piemonte. Sempre nel 1919 diventa Presidente della Gioventù Cattolica Piemontese e, per un breve tempo, segretario dell’Unione Lavoratori di Torino: sono le prime forme di sindacalismo bianco. Sono anni difficili, ogni convegno o processione può essere teatro di scontro con socialisti, massoni e più tardi anche con i fascisti. Lo stesso Vuillermin durante un contradditorio a Chieri viene scaraventato a terra dal tavolino e riesce ad evitare una coltellata. Il 7 ottobre 1920 viene eletto consigliere comunale di Torino. E’ tuttavia dalle righe di “Giovane Piemonte”, il settimanale della Gioventù Cattolica piemontese da lui ispirato, che possiamo meglio seguire il pensiero di Vuillermin sull’Italia che andava conoscendo il biennio rosso e la venuta del fascismo. Nel numero del 29 gennaio 1921 Vuillermin interviene in merito alle suggestioni della guerra ai rossi e dell’ordine fascista che minacciano di inquinare i giovani cattolici “il fascismo è un fenomeno di violenza, e quindi lo dobbiamo combattere” afferma Renato, proseguendo così: “ che differenza c’è fra un attacco rosso ad una processione e l’assasinio fascista del contadino di Toscana, reo di non voler abbassare la bandiera bianca dal suo tetto? Tra l’assalto socialista di Ferrara e gli attacchi fascisti ai pacifici cortei di lavoratori socialisti, all’”Avanti” di Roma e Milano?” Il fascismo “è sempre il diavolo e una volta o l’altra butterà via il travestimento”; se qualcuno “malgrado i più fraterni ammonimenti, si confonderà con esso, troverà nei nostri circoli l’uscio di legno”. Nell’agosto del 1921 si svolge a Roma il cinquantesimo anniversario della nascita della gioventù cattolica, evento che in ogni modo viene osteggiato dal governo, negando di fatto le autorizzazioni al corteo e alla celebrazione della S. Messa al Colosseo. Vuillermin è tra i più attivi in quell’evento, ha guidato a Roma duemila giovani piemontesi a cui ha fatto indossare una vistosa cravatta bianca e negli incidenti tra manifestanti e guardie regie in Piazza del Gesù viene tratto posto in stato di fermo. L’avversione al fascismo del giovane Vuillerimn, testimoniata nei suoi scritti e nei suoi comizi, non passa inosservata; il 18 marzo dello stesso anno mentra passeggia con un amico nei pressi di piazza Santa Marta a Torino viene aggredito da tre fascisti armati di manganelli che lo feriscono alla testa. Non tutti i cattolici la pensano però allo stesso modo, molti sono stati ammaliati dalla restaurazione dell’ordine che il fascismo sembra promanare. Vuillermin allora, in seguito ad uno scritto di Mussolini dell’11 giugno 1922, sferra l’attacco nel punto più sensibile di un qualsiasi cristiano superficiale. Il duce disse: “Noi disdegnamo la frigidà purità degli impotenti. Noi sputiamo in faccia sui San Luigi Gonzaga che temono di guardare in faccia la madre – la vita – per il terrore di commettere peccato”. Vuillermin non si fa sfuggire l’occasione e risponde per le rime: “
Noi avremmo osato sperare che delle sputacchiere non mancassero al fascismo italiano, che tutta la grassa mandria che lo foraggia non gli avesse lasciato mancare questo arnese di prima necessità. Invece no, gli amici non ci hanno pensato. Ed allora con la baldanza sua propria si è dato dattorno cercarsele. Non le ha cercate nei volti dei barattieri, dei pescecanacci ingordi, dei truffatori medagliati, degli agrari strozzacontadini. No! Non si sputa nel piatto in cui si mangia. Si sputa contro i nemici…Questa gioventù grida a costoro che vivaddio se vorranno sputacchiare sulle facce d’Italia che seguono S.Luigi si consumeranno tutti i marci polomoni degli sputacchiatori più o meno coperti dal bandierone tricolore”. Nel 1923 in seguito alle dimissioni di Sturzo dal Partito Popolare, Vuillermin non si da pervinto e dopo le devastazioni per mano fascista di diversi circoli in tutt’Italia, decide di scrivere una lettera pubblica a Mussolini: “On. Mussolini, è perfettamente inutile chiamare idiote delle gesta delittuose, bisogna prevenirle, impedirle…Uno Stato che non è capace di far rispettare le sue leggi è indegno di vivere, avete detto voi un giorno contro i liberali. On. Mussolini, è la vostra volta…”. Ma è nel discorso di Novara del luglio 1923 che si esprime al meglio ed organicamente il pensiero di Vuillermin: la ferma adesione ai principi del popolarismo quali andava difendendo strenuamente Luigi Sturzo, e insieme la testimonianza drammatica della lacerata coscienza cattolica degli anni venti e della resistenza opposta dalla base popolare, fra le ombre e i bagliori dell’imminente crepuscolo della libertà, alla marcia su Roma. Intanto continuano le violenze sui giovani cattolici in tutta la penisola e il 23 agosto ad Argenta viene ucciso dagli squadristi di Italo Balbo don Giovanni Minzoni. Nel giugno, con il delitto Matteotti il regime sembrava avere i giorni contati. Le forze democratiche avevano realizzato di fatto una prima collaborazione, attestandosi, secondo la nobile espressione di Turati “sull’Avventino delle loro coscienze”. Ma vi rimangono prigioniere delle loro contraddizioni ed indecisioni. Il 1924 è l’anno in cui Vuillermin lascia la carica di presidente del movimento giovanile piemontese, i nuovi statuti accentratori avevano infatti svuotavano nei fatti i movimenti regionali. Renato intanto si era sposato nel 1922 con Eugenia Ruscazio da cui avrà due figli, Fiorenza e Eugenio, e inizia a lavorare presso la Società Idroelettrica Piemontese. In questi anni conseguirà le lauree in Legge, con una tesi sulla Crisi dello Stato e decentramento amministrativo, e nel 1926 quella in Scienze Politiche con un tesi sull’opera del gesuita spagnolo Suarez, che divverà anche un libro edito da edizioni Athena Milano. Fino al 1929 poco o nulla sappiamo della sua attività politica. In questi anni sono frequenti i suoi viaggi a Roma, dove incontra Spataro, padre Rosa, il maresciallo Caviglia e talvolta De Gasperi. Talora si spinge anche a Napoli a trovare l’amico Rodinò e Bendetto Croce. Il 1929 è l’anno della firma dei patti lateranensi, i quali non illuderanno gli spiriti più avvertiti; i cattolici democratici cominciano allora ad uscire alla chetichella e rientrare nei circoli di A.C. svolgendo un’intensa opera di educazione; anche Vuillermin torna in scena, la SEI pubblica in quell’anno l’enciclica Immortale Dei di Leone XIII con un suo commento-prefazione.Nel 1930 il prof. Augusto Monti, incontra tramite il comune amico Domenico Ravaioli, Vuillermin. Il Partito Popolare non era morto. Vuillermin chiede a Monti di metterlo in contatto con Luigi Albertini e Luigi Einaudi, Monti però, visto l’immobilismo dei liberali del “Corriere”, gli propone il contatto con il gruppo Giellista di Torino capeggiato da Pierino Zanetti e con quello di Milano guidato da Riccardo Bauer. Dopo una fitta serie di incontri preparatori si arriverà a fissare il 30 ottobre un appuntamento tra Vuillermin e il gruppo torinese e milanese, incontro che però salterà a causa di una retata della polizia che scompaginerà il movimento giellista lombardo. Vuillermin continua su questo filone giellista e manda Ravaioli per suo conto a Parigi da Carlo Rosselli ma non si combinerà niente neanche in questo caso per obbiezioni e diffidinze della parte laica. La collaborazione con i giellisti rimane in qualche modo occasionale, di fronte allo scetticismo degli improvvisati compagni di strada di fronte al suo piano d’azione, Vuillermin risponde di sapere “che la tela si ordiva in alto”, che non bisogna disarmare. L’intenso rapporto con padre Enrico Rosa fa presupporre anche un legame del gruppo di Renato Vuillermin al movimento clandestino di Alleanza Nazionale, capeggiato da Mario Vinciguerra e sostenuto da Bendetto Croce, Zanotti Bianco e pade Enrico Rosa. Oltre a Enrico Rosa, Vuillermin era in stretto contatto con lo stesso Croce, il quale avrà modo di ricordarlo dopo la morte: “l’ho ancora dinnanzi agli occhi, quando veniva a trovarmi a Meana insieme ad Augusto Monti, e questi era tutto rianimato dal pensiero di avere alleati nella lotta contro il fascimo i cattolici di nobile sentire, come quel giovane…”
Se l’adesione di Vuillermin ad Alleanza Nazionale può essere desunta da una lettura critica dei documenti rimasti, la sua presenza all’interno del Movimento Guelfo d’Azione, è esplicitamente confermata. Il gruppo era nato nel 1929 e aveva lo scopo di raccogliere in un unico movimento le correnti cattoliche antifasciste, specie nell’Italia settentrionale. Lo guidavano Piero Malvestiti e Gioacchino Malavasi. Malvesti ricorda i numerosi colloqui avuti a Milano in casa di amici con Renato Vuillermin al fine di potenziare il movimento, ed inoltrò in gran copia i manifestini del Movimento: “E mi risulta anche che la diffusione nel torinese fu adeguata. Naturalmente né il nome di Vuillermin né queli di altri corrispondenti uscirono dalle nostre labbra” negli interrogatori a seguito all’arresto dei vertici guelfi. Nel 1937 Renato frequenta Finale Ligure, vicino a Savona, dove acquista una sorta di castello a mezzacosta della montagna; l’anno seguente il prefetto di Torino impone alla SIP di licenziarlo, Vuillermin si ostinava infatti a non iscriversi al PNF. Decide quindi di aprire uno studio a Finale e va ad abitare al castello in compagnia del figlio Fiorenzo. Il 10 giugno 1940 vi è la dichiarazione di guerra dell’Italia, in una delle sere seguenti carabinieri, milizia e polizia irromperanno nell’abitazione di Vuillermin accusandolo di aver fatto segnalazioni luminose agli arei alleati. Un’accusa assurda e infondata me è un avvertimento: basta meno di un mormorio di un incontro clandestino per rischiare grosso. Rentato non si intimorisce, inoltre la presenza a Finale del generale Caviglia, conoscente di vecchia data di Vuillermin, monarchico, lealista, ma intimamente avverso al fascismo, gli consente, in un certo qual modo, di agire con una certa garanzia. Nel “castello” di Finale si svolgono diverse riunioni clandestine con vecchi popolari e altri antifascisti ed è a causa dei verbali di queste riunioni che il 24 novembre Renato viene arrestato dopo una perquisizione in casa da parte delle camice nere. Vuillermin, insieme con i maggiori indiziati del così detto “complotto di Finale”, viene trattenuto in carcere per circa un mese, affronta gli interrogatori con il suo solito spirito irreprensibile e il 13 gennaio 1943 viene condannato dalla Commisione provinciale di Savona al confino di polizia per cinque anni: il massimo della pena.
Sconterà la condanna a Giulianova. Qui Renato partecipa attivamente alla vita religiosa del paese, studia, legge e scrive molto. Riesce a prendere contatto con gli antifascisti locali e ad essere partecipe del movimento che si stava creando in quella zona. Gli sono vicini in quel periodo il comunista Leo Leone, il sarto Salvatore Verdini, l’avv. Riccardo Cerulli, il prof. Saverio Secchi e il rag. Aristide Castiglioni; attraverso questi ultimi due, vecchi popolari, Vuillermin riesce ad incontrarsi con il vecchio amico Giuseppe Brusasca ed a mantenere i rapporti con la Democrazia Cristiana, ormai attiva su piano nazionale. Ha modo anche di difendersi contro l’inchiesta militare che deriva ad ogni ufficiale in congedo in seguito a provvedimento di polizia per motivi politici “Falso è…l’allegato del Questore di Savona – prorompe Vuillermin – quando mi definisce un ex popolare fervente. Io non ho mai tradito la mia fede politica. Gli ex si possono affibiare ad altri,non a me … Se anche il mio partito è stato violentemente soppresso, le mie idee rimangono quelle, anzi si sono rinvigorite nella ventennale esperienze contraria fatta dal mio diletto Paese…”.Preoccupati per il suo attivismo, le autorità decidono di trasferire Vuillermin a Castelli di Teramo, un paesino di montagna a cui al tempo si accedeva solo a piedi. Lì lo coglie la notizia del 25 luglio e, dopo pochi giorni, lascia l’Abruzzo per far ritorno a Finale Ligure dove proseguirà la sua attività di incontri e riunioni clandestine.La sera del 23 dicembre a Savona viene lanciata una bomba nella “Trattoria della Stazione” dove era presente un gruppo di militari tedeschi e il capo del personale dell’ILVA, Piero Bonetto, famoso per le sue spedizioni punitive e il reclutamento delle liste di persone da mandare in Germania. Tre morti e diciasette feriti sarà il bilancio dell’esplosione. Il capo della provincia Mirabelli da l’avvio alle indagini, mentre la sera stessa gli squadristi si raccogono in federazione invocando una rappresaglia esemplare . E’ questa l’idea che prenderà corpo nelle successive riunioni in prefettura. Si inizia così a redigere l’elenco dei nomi destinati al sacrificio: l’avvocato giellista Cristoforo Astengo, denuto da due mesi senza imputazione specifica, Francesco Calcagno, militare comunista alla macchia e catturato nei boschi di Roviasca, CarloRebagliati e Arturo Giacosa, comunisti, entrambi arrestati a Millesimo con l’accusa di favoreggiamento di partigiani, Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi, rastrellati nella zona di Gottasecca. A questo punto esce il nome di Vuillermin, antifascista di spicco e sospettato di connivenza con gli alleati. Inoltre, essendo cattolico, avrebbe conferito alla lista anche una maggiore rappresentatitvità dell’intero arco antifascista che si voleva colpire.
Il maresciallo dei carabinieri suonò a casa Vuillermin il giorno di Natale alle 14.00, comunicando a Renato l’ordine di tradurlo sotto scorta a Savona e gli diede appuntamento in caserma nel pomeriggio. Se il maresciallo volesse offrire a Vuillermin il modo di scappare lo possiamo solo ipotizzare, di fatto Vuillermin pensò che non avendo nulla da nascondere non vi era motivo per non presentarsi all’appuntamento. Così fece, presentandosi all’orario accordato in caserma. Di qui viene portato a Savona nelle carceri insieme alle altre sei vittime designate. Alle quattro di mattina del 27 dicembre i sette vengono caricati su un torpedone e portati in corso Ricci dove rimarrano fino allesei. Dentro l’edificio sotto cui stanno attendendo i prigionieri, si consuma la farsa del tribunale speciale straordianario. Nessuno pensa ad ascoltarli, la loro sorte è già decisa: condannati a morte. Di qui vengono trasportati al forte della Madonna degli Angeli, sulle alture di Savona, quando scendono dal mezzo capiscono perfettamente quale destiono li sta attendendo. Il comandante Rosario Privitera gli impone la fucilazioni con i ferri come ulteriore atto di umiliazione. Astegno protesta: “Vigliacchi!Dunque ci assisante così! Vigliacchi! Voi vi macchiate del peggior crimine che la storia ricordi! Io non so nulla da due mesi di quello che avviene fuori”. Privitera risponde irridente “Questo è il conto che vi si salda dopo vent’anni di propaganda antifascista”.
Si fa avanti Vuillermin, calmo, rasseganto: “Giacchè mi dovete ammazzare, datemi almeno l’estremo conforto della religione, chiamatemi un prete”. Privitera, inidicando il muro risponde: “Andate là, ho regolato io tutti i conti per voi anche con Dio”. I condannati si stringono l’un l’altro. Si ode a questo punto la voce ferma e tonante di Vuillermin “Io credo in Dio, Padre Onnipotente…”,le svetagliate di mitra stroncheranno, rabbiose, la preghiera e ogni altra voce o gesto.
Solo il giorno seguente le salme furono lasciate ai famigliari, senza neanche il conforto di un ricordo, infatti queste vennero depredate di portafogli, anelli e orologi. A Renato Vuillermin nel dopoguerra verranno dedicate una piazza ad Aosta, una corso a Torino, una piazza a Finale Ligure, una via a Giulianova, una via ad Alba, una a Saluggia (Vercelli) e una a Villafranca Piemonte (Torino). In vari articoli e saggi sarà ricordato da storici, amici e personaggi illustri conosciuti in vita come Benedetto Croce, Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro.
Bibliografia di riferimento:
Ezio Bèrard –
Renato Vuillermin. Un cattolico di frontiera, Tipografia Valdostana, Aosta 1994
Lorenzo Mondo –
Renato Vuillermin. Un cattolico nella resistenza. Ed. Cinque Lune, Roma 1966
Renato Vuillermin e l’antifascismo cattolico
, supplemento speciale della rivista abruzzese di studi
storici dal fascismo alla resistenza di autori vari, Arti Grafiche Aquilane, L’Aquila, 1981
Una testimonianza cristiana nella Resistenza
Renato Vuillermin nasce a Milano l’8 febbraio 1896, frequenta le scuole elementari a Racconigi
(CN) e in seguito a Torino, dove il padre di origini aostane era stato trasferito in quanto vicecancelliere
del tribunale, quindi si iscrive al Ginnasio Salesiano a Valdocco. Nel 1916 è chiamato
alle armi nel corpo di sanità, tuttavia si offre volontario negli alpini. L’esperienza della guerra lo
segnerà sia nella carne che negli affetti: lui rimane ferito al braccio e alla gamba sulle pendici
dell’Ortigara, anche il fratello Ermete cade ferito mentre il terzogenito Fausto muore in Macedonia.
Da questi eventi Renato esce con una profonda avversione ad ogni forma di violenza e quindi con la
netta opposizione a quei movimenti di nazionalisti delusi che si andavano sviluppando a seguito del
conflitto. Congedato nel 1919 Vuillermin si applica agli studi universitari nella facoltà di Scienze
Naturali e trova lavoro nella redazione del quotidiano cattolico “Il Momento”, oltre che
nell’insegnamento. Sempre in quell’anno è tra i primi aderenti all’
appello ai liberi e forti di don
Sturzo; con il Partito Popolare si impegna in comizi, aperture di sezioni e settimane sociali. Nel
1919 risulta tra gli eletti per il primo congresso nazionale del partito e insieme ad altri forma
l’indisciplinato gruppo di sinistra che si contrappone all’estrema destra, naturale filiazione del
circolo degli aristocratici piemontesi. Il PPI a Torino sarà infatti molto condizionato da questo
gruppo “
Tupinet” di cui faceva parte anche il barone Gianotti che nel 1924 sarà promotore del
filofascista Centro Nazionale per il Piemonte. Sempre nel 1919 diventa Presidente della Gioventù
Cattolica Piemontese e, per un breve tempo, segretario dell’Unione Lavoratori di Torino: sono le
prime forme di sindacalismo bianco. Sono anni difficili, ogni convegno o processione può essere
teatro di scontro con socialisti, massoni e più tardi anche con i fascisti. Lo stesso Vuillermin durante
un contradditorio a Chieri viene scaraventato a terra dal tavolino e riesce ad evitare una coltellata.
Il 7 ottobre 1920 viene eletto consigliere comunale di Torino. E’ tuttavia dalle righe di “Giovane
Piemonte”, il settimanale della Gioventù Cattolica piemontese da lui ispirato, che possiamo meglio
seguire il pensiero di Vuillermin sull’Italia che andava conoscendo il biennio rosso e la venuta del
fascismo.
Nel numero del 29 gennaio 1921 Vuillermin interviene in merito alle suggestioni della guerra ai
rossi e dell’ordine fascista che minacciano di inquinare i giovani cattolici “
il fascismo è un
fenomeno di violenza, e quindi lo dobbiamo combattere
” afferma Renato, proseguendo così: “ che
differenza c’è fra un attacco rosso ad una processione e l’assasinio fascista del contadino di
Toscana, reo di non voler abbassare la bandiera bianca dal suo tetto? Tra l’assalto socialista di
Ferrara e gli attacchi fascisti ai pacifici cortei di lavoratori socialisti, all’”Avanti” di Roma e
Milano?
.” Il fascismo “è sempre il diavolo e una volta o l’altra butterà via il travestimento”; se
qualcuno “
malgrado i più fraterni ammonimenti, si confonderà con esso, troverà nei nostri circoli
l’uscio di legno
”.
Nell’agosto del 1921 si svolge a Roma il cinquantesimo anniversario della nascita della gioventù
cattolica, evento che in ogni modo viene osteggiato dal governo, negando di fatto le autorizzazioni
al corteo e alla celebrazione della S. Messa al Colosseo. Vuillermin è tra i più attivi in quell’evento,
ha guidato a Roma duemila giovani piemontesi a cui ha fatto indossare una vistosa cravatta bianca e
negli incidenti tra manifestanti e guardie regie in Piazza del Gesù viene tratto posto in stato di
fermo. L’avversione al fascismo del giovane Vuillerimn, testimoniata nei suoi scritti e nei suoi
comizi, non passa inosservata; il 18 marzo dello stesso anno mentra passeggia con un amico nei
pressi di piazza Santa Marta a Torino viene aggredito da tre fascisti armati di manganelli che lo
feriscono alla testa. Non tutti i cattolici la pensano però allo stesso modo, molti sono stati ammaliati
dalla restaurazione dell’ordine che il fascismo sembra promanare. Vuillermin allora, in seguito ad
uno scritto di Mussolini dell’11 giugno 1922, sferra l’attacco nel punto più sensibile di un qualsiasi
cristiano superficiale. Il duce disse: “Noi disdegnamo la frigidà purità degli impotenti. Noi sputiamo
in faccia sui San Luigi Gonzaga che temono di guardare in faccia la madre – la vita – per il terrore
di commettere peccato”.
Vuillermin non si fa sfuggire l’occasione e risponde per le rime: “
Noi avremmo osato sperare che
delle sputacchiere non mancassero al fascismo italiano, che tutta la grassa mandria che lo foraggia
non gli avesse lasciato mancare questo arnese di prima necessità. Invece no, gli amici non ci hanno
pensato. Ed allora con la baldanza sua propria si è dato dattorno cercarsele. Non le ha cercate nei
volti dei barattieri, dei pescecanacci ingordi, dei truffatori medagliati, degli agrari
strozzacontadini. No! Non si sputa nel piatto in cui si mangia. Si sputa contro i nemici…Questa
gioventù grida a costoro che vivaddio se vorranno sputacchiare sulle facce d’Italia che seguono
S.Luigi si consumeranno tutti i marci polomoni degli sputacchiatori più o meno coperti dal
bandierone tricolore
”.
Nel 1923 in seguito alle dimissioni di Sturzo dal Partito Popolare, Vuillermin non si da pervinto e
dopo le devastazioni per mano fascista di diversi circoli in tutt’Italia, decide di scrivere una lettera
pubblica a Mussolini: “
On. Mussolini, è perfettamente inutile chiamare idiote delle gesta delittuose,
bisogna prevenirle, impedirle…Uno Stato che non è capace di far rispettare le sue leggi è indegno
di vivere, avete detto voi un giorno contro i liberali. On. Mussolini, è la vostra volta…
”. Ma è nel
discorso di Novara del luglio 1923 che si esprime al meglio ed organicamente il pensiero di
Vuillermin: la ferma adesione ai principi del popolarismo quali andava difendendo strenuamente
Luigi Sturzo, e insieme la testimonianza drammatica della lacerata coscienza cattolica degli anni
venti e della resistenza opposta dalla base popolare, fra le ombre e i bagliori dell’imminente
crepuscolo della libertà, alla marcia su Roma.
Intanto continuano le violenze sui giovani cattolici in tutta la penisola e il 23 agosto ad Argenta
viene ucciso dagli squadristi di Italo Balbo don Giovanni Minzoni. Nel giugno, con il delitto
Matteotti il regime sembrava avere i giorni contati. Le forze democratiche avevano realizzato di
fatto una prima collaborazione, attestandosi, secondo la nobile espressione di Turati “sull’Avventino
delle loro coscienze”. Ma vi rimangono prigioniere delle loro contraddizioni ed indecisioni.
Il 1924 è l’anno in cui Vuillermin lascia la carica di presidente del movimento giovanile piemontese,
i nuovi statuti accentratori avevano infatti svuotavano nei fatti i movimenti regionali. Renato intanto
si era sposato nel 1922 con Eugenia Ruscazio da cui avrà due figli, Fiorenza e Eugenio, e inizia a
lavorare presso la Società Idroelettrica Piemontese. In questi anni conseguirà le lauree in Legge, con
una tesi sulla Crisi dello Stato e decentramento amministrativo, e nel 1926 quella in Scienze
Politiche con un tesi sull’opera del gesuita spagnolo Suarez, che divverà anche un libro edito da
edizioni Athena Milano. Fino al 1929 poco o nulla sappiamo della sua attività politica. In questi
anni sono frequenti i suoi viaggi a Roma, dove incontra Spataro, padre Rosa, il maresciallo Caviglia
e talvolta De Gasperi. Talora si spinge anche a Napoli a trovare l’amico Rodinò e Bendetto Croce. Il
1929 è l’anno della firma dei patti lateranensi, i quali non illuderanno gli spiriti più avvertiti; i
cattolici democratici cominciano allora ad uscire alla chetichella e rientrare nei circoli di A.C.
svolgendo un’intensa opera di educazione; anche Vuillermin torna in scena, la SEI pubblica in
quell’anno l’enciclica
Immortale Dei di Leone XIII con un suo commento-prefazione.
Nel 1930 il prof. Augusto Monti, incontra tramite il comune amico Domenico Ravaioli, Vuillermin.
Il Partito Popolare non era morto. Vuillermin chiede a Monti di metterlo in contatto con Luigi
Albertini e Luigi Einaudi, Monti però, visto l’immobilismo dei liberali del “Corriere”, gli propone il
contatto con il gruppo Giellista di Torino capeggiato da Pierino Zanetti e con quello di Milano
guidato da Riccardo Bauer. Dopo una fitta serie di incontri preparatori si arriverà a fissare il 30
ottobre un appuntamento tra Vuillermin e il gruppo torinese e milanese, incontro che però salterà a
causa di una retata della polizia che scompaginerà il movimento giellista lombardo.
Vuillermin continua su questo filone giellista e manda Ravaioli per suo conto a Parigi da Carlo
Rosselli ma non si combinerà niente neanche in questo caso per obbiezioni e diffidinze della parte
laica. La collaborazione con i giellisti rimane in qualche modo occasionale, di fronte allo
scetticismo degli improvvisati compagni di strada di fronte al suo piano d’azione, Vuillermin
risponde di sapere “che la tela si ordiva in alto”, che non bisogna disarmare.
L’intenso rapporto con padre Enrico Rosa fa presupporre anche un legame del gruppo di Renato
Vuillermin al movimento clandestino di Alleanza Nazionale, capeggiato da Mario Vinciguerra e
sostenuto da Bendetto Croce, Zanotti Bianco e pade Enrico Rosa. Oltre a Enrico Rosa, Vuillermin
era in stretto contatto con lo stesso Croce, il quale avrà modo di ricordarlo dopo la morte: “l’ho
ancora dinnanzi agli occhi, quando veniva a trovarmi a Meana insieme ad Augusto Monti, e questi
era tutto rianimato dal pensiero di avere alleati nella lotta contro il fascimo i cattolici di nobile
sentire, come quel giovane…”
Se l’adesione di Vuillermin ad Alleanza Nazionale può essere desunta da una lettura critica dei
documenti rimasti, la sua presenza all’interno del Movimento Guelfo d’Azione, è esplicitamente
confermata. Il gruppo era nato nel 1929 e aveva lo scopo di raccogliere in un unico movimento le
correnti cattoliche antifasciste, specie nell’Italia settentrionale. Lo guidavano Piero Malvestiti e
Gioacchino Malavasi. Malvesti ricorda i numerosi colloqui avuti a Milano in casa di amici con
Renato Vuillermin al fine di potenziare il movimento, ed inoltrò in gran copia i manifestini del
Movimento: “E mi risulta anche che la diffusione nel torinese fu adeguata. Naturalmente né il nome
di Vuillermin né queli di altri corrispondenti uscirono dalle nostre labbra” negli interrogatori a
seguito all’arresto dei vertici guelfi.
Nel 1937 Renato frequenta Finale Ligure, vicino a Savona, dove acquista una sorta di castello a
mezzacosta della montagna; l’anno seguente il prefetto di Torino impone alla SIP di licenziarlo,
Vuillermin si ostinava infatti a non iscriversi al PNF. Decide quindi di aprire uno studio a Finale e
va ad abitare al castello in compagnia del figlio Fiorenzo. Il 10 giugno 1940 vi è la dichiarazione di
guerra dell’Italia, in una delle sere seguenti carabinieri, milizia e polizia irromperanno
nell’abitazione di Vuillermin accusandolo di aver fatto segnalazioni luminose agli arei alleati.
Un’accusa assurda e infondata me è un avvertimento: basta meno di un mormorio di un incontro
clandestino per rischiare grosso. Rentato non si intimorisce, inoltre la presenza a Finale del generale
Caviglia, conoscente di vecchia data di Vuillermin, monarchico, lealista, ma intimamente avverso al
fascismo, gli consente, in un certo qual modo, di agire con una certa garanzia. Nel “castello” di
Finale si svolgono diverse riunioni clandestine con vecchi popolari e altri antifascisti ed è a causa
dei verbali di queste riunioni che il 24 novembre Renato viene arrestato dopo una perquisizione in
casa da parte delle camice nere. Vuillermin, insieme con i maggiori indiziati del così detto
“complotto di Finale”, viene trattenuto in carcere per circa un mese, affronta gli interrogatori con il
suo solito spirito irreprensibile e il 13 gennaio 1943 viene condannato dalla Commisione
provinciale di Savona al confino di polizia per cinque anni: il massimo della pena.
Sconterà la condanna a Giulianova. Qui Renato partecipa attivamente alla vita religiosa del paese,
studia, legge e scrive molto. Riesce a prendere contatto con gli antifascisti locali e ad essere
partecipe del movimento che si stava creando in quella zona. Gli sono vicini in quel periodo il
comunista Leo Leone, il sarto Salvatore Verdini, l’avv. Riccardo Cerulli, il prof. Saverio Secchi e il
rag. Aristide Castiglioni; attraverso questi ultimi due, vecchi popolari, Vuillermin riesce ad
incontrarsi con il vecchio amico Giuseppe Brusasca ed a mantenere i rapporti con la Democrazia
Cristiana, ormai attiva su piano nazionale. Ha modo anche di difendersi contro l’inchiesta militare
che deriva ad ogni ufficiale in congedo in seguito a provvedimento di polizia per motivi politici “
Falso è…l’allegato del Questore di Savona –
prorompe Vuillermin – quando mi definisce un ex
popolare fervente. Io non ho mai tradito la mia fede politica. Gli ex si possono affibiare ad altri,
non a me … Se anche il mio partito è stato violentemente soppresso, le mie idee rimangono quelle,
anzi si sono rinvigorite nella ventennale esperienze contraria fatta dal mio diletto Paese…”.
Preoccupati per il suo attivismo, le autorità decidono di trasferire Vuillermin a Castelli di Teramo,
un paesino di montagna a cui al tempo si accedeva solo a piedi. Lì lo coglie la notizia del 25 luglio
e, dopo pochi giorni, lascia l’Abruzzo per far ritorno a Finale Ligure dove proseguirà la sua attività
di incontri e riunioni clandestine.
La sera del 23 dicembre a Savona viene lanciata una bomba nella “Trattoria della Stazione” dove
era presente un gruppo di militari tedeschi e il capo del personale dell’ILVA, Piero Bonetto, famoso
per le sue spedizioni punitive e il reclutamento delle liste di persone da mandare in Germania. Tre
morti e diciasette feriti sarà il bilancio dell’esplosione.
Il capo della provincia Mirabelli da l’avvio alle indagini, mentre la sera stessa gli squadristi si
raccogono in federazione invocando una rappresaglia esemplare . E’ questa l’idea che prenderà
corpo nelle successive riunioni in prefettura. Si inizia così a redigere l’elenco dei nomi destinati al
sacrificio: l’avvocato giellista Cristoforo Astengo, denuto da due mesi senza imputazione specifica,
Francesco Calcagno, militare comunista alla macchia e catturato nei boschi di Roviasca, Carlo
Rebagliati e Arturo Giacosa, comunisti, entrambi arrestati a Millesimo con l’accusa di
favoreggiamento di partigiani, Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi, rastrellati nella zona di
Gottasecca. A questo punto esce il nome di Vuillermin, antifascista di spicco e sospettato di
connivenza con gli alleati. Inoltre, essendo cattolico, avrebbe conferito alla lista anche una
maggiore rappresentatitvità dell’intero arco antifascista che si voleva colpire.
Il maresciallo dei carabinieri suonò a casa Vuillermin il giorno di Natale alle 14.00, comunicando a
Renato l’ordine di tradurlo sotto scorta a Savona e gli diede appuntamento in caserma nel
pomeriggio. Se il maresciallo volesse offrire a Vuillermin il modo di scappare lo possiamo solo
ipotizzare, di fatto Vuillermin pensò che non avendo nulla da nascondere non vi era motivo per non
presentarsi all’appuntamento. Così fece, presentandosi all’orario accordato in caserma. Di qui viene
portato a Savona nelle carceri insieme alle altre sei vittime designate. Alle quattro di mattina del 27
dicembre i sette vengono caricati su un torpedone e portati in corso Ricci dove rimarrano fino alle
sei. Dentro l’edificio sotto cui stanno attendendo i prigionieri, si consuma la farsa del tribunale
speciale straordianario. Nessuno pensa ad ascoltarli, la loro sorte è già decisa: condannati a morte.
Di qui vengono trasportati al forte della Madonna degli Angeli, sulle alture di Savona, quando
scendono dal mezzo capiscono perfettamente quale destiono li sta attendendo. Il comandante
Rosario Privitera gli impone la fucilazioni con i ferri come ulteriore atto di umiliazione. Astegno
protesta: “Vigliacchi!Dunque ci assisante così! Vigliacchi! Voi vi macchiate del peggior crimine che
la storia ricordi! Io non so nulla da due mesi di quello che avviene fuori”. Privitera risponde
irridente “Questo è il conto che vi si salda dopo vent’anni di propaganda antifascista”.
Si fa avanti Vuillermin, calmo, rasseganto: “Giacchè mi dovete ammazzare, datemi almeno
l’estremo conforto della religione, chiamatemi un prete”. Privitera, inidicando il muro risponde:
“Andate là, ho regolato io tutti i conti per voi anche con Dio”. I condannati si stringono l’un l’altro.
Si ode a questo punto la voce ferma e tonante di Vuillermin “Io credo in Dio, Padre Onnipotente…”,
le svetagliate di mitra stroncheranno, rabbiose, la preghiera e ogni altra voce o gesto.
Solo il giorno seguente le salme furono lasciate ai famigliari, senza neanche il conforto di un
ricordo, infatti queste vennero depredate di portafogli, anelli e orologi.
A Renato Vuillermin nel dopoguerra verranno dedicate una piazza ad Aosta, una corso a Torino, una
piazza a Finale Ligure, una via a Giulianova, una via ad Alba, una a Saluggia (Vercelli) e una a
Villafranca Piemonte (Torino). In vari articoli e saggi sarà ricordato da storici, amici e personaggi
illustri conosciuti in vita come Benedetto Croce, Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro.
Bibliografia di riferimento:
Ezio Bèrard –
Renato Vuillermin. Un cattolico di frontiera, Tipografia Valdostana, Aosta 1994
Lorenzo Mondo –
Renato Vuillermin. Un cattolico nella resistenza. Ed. Cinque Lune, Roma 1966
Renato Vuillermin e l’antifascismo cattolico
, supplemento speciale della rivista abruzzese di studi
storici dal fascismo alla resistenza di autori vari, Arti Grafiche Aquilane, L’Aquila, 1981