DOSSETTI: UNA VOCE ANCORA VALIDA di Giancarla Codrignani
RELAZIONE AL CONVEGNO: GIUSEPPE DOSSETTI dalla Resistenza alla Costituzione (21 febbraio 2013)
Riordino il mio intervento per la pubblicazione sul sito dopo l’esito delle elezioni e non posso non pensare all’enorme distanza dalle considerazioni dossettiane sullo Stato e, contemporaneamente, all’assoluta attualità dei fondamenti del suo pensiero. Nell’intervento del 12 novembre 1951 all’Unione Giuristi Cattolici (che rappresenta il suo congedo dalla politica diretta) il titolo resta ancora di assoluta attualità: “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”. Gli interrogativi “quid est felicitas?…quid est libertas? possono non appartenere formalmente (il latino!) al Movimento 5stelle, ma le citazioni “Non è forse la libertà già di per sé stessa la felicità? L’uomo è nato libero e perciò felice; mentre ovunque è in ceppi (anche ad opera dell’ignoranza, dell’asservimento ai media, dell’egoismo consumista) e perciò infelice…. Nella storia di 150 anni di Stato moderno una sola libertà risulta sempre sostanzialmente riconosciuta e garantita: la libertà di iniziativa privata e la proprietà dei mezzi di produzione…..Occorrono delle strutture radicalmente nuove. Qualunque cosa noi consideriamo delle tante che sono state dette, qualunque angolo di questa complessa verità noi prendiamo in esame, esso ci porta sempre a questa conclusione: l’assoluta, radicale inadeguatezza delle strutture attuali, adottate più o meno da tutti gli Stati, le quali, pur nell’apparente veste di riforma, sostanzialmente sono ancora legate alla struttura vecchia. Occorre una struttura altamente autorevole, responsabile, efficiente, e perciò rapida. La struttura dello Stato moderno non è una struttura autorevole perché nata, come sappiamo, da una finalità fondamentale: quella di contrapporre i poteri nella previsione di un suo raro e limitato funzionamento. Noi siamo di fronte, ormai in maniera radicale, alla fine della struttura parlamentare“.
Che dire? Certamente, come ho detto nel mio intervento, Giuseppe Dossetti, partigiano disarmato, Costituente che firma proposte con Togliatti e Basso, giurista sorprendente (la sua tesi su “la violenza nel matrimonio canonico” che potrebbe piacere alle teologhe femministe per il riconoscimento della subalternità femminile nella famiglia), il democristiano atipico (anche se in quegli anni il partito di De Gasperi non era ancora la “diccì”), il candidato sindaco per obbedienza al suo vescovo, il prete del Concilio Vaticano II, il monaco, il profeta sceso in campo a difesa della Costituzione, resta da sempre un uomo – e un testimone – scomodo.
Data la crisi globale che ci condiziona, ho scelto di interrogare il pensiero dossettiano sulla problematica del lavoro, oggi più che mai centrale nell’orizzonte politico e nella vita quotidiana delle persone. La crisi è preoccupante e la politica deve porre il lavoro al centro: in primo luogo la questione meridionale è sempre dolente e la situazione dei giovani e delle donne più precaria che mai; mentre le industrie chiudono, non si sono mai privilegiate seriamente la scuola, la ricerca, la cultura; la governance è fallimentare, mentre ambiente e territorio hanno gravi emergenze (gli acquedotti meridionali) e gli enti locali non riescono a finanziare i servizi; intanto i problemi dei “derivati” e della deregulation bancaria continua. Si è allargata la forbice delle differenze fra ricchi e poveri e il deficit di cittadinanza ha prodotto – come risulta ancor più evidente oggi – oblio del senso della rappresentanza parlamentare.
Le condizioni dell’Italia del dopoguerra erano ai tempi di Giuseppe Dossetti particolarmente gravi e, per un credente, pesava la consapevolezza che la maggioranza dei cattolici italiani e tedeschi aveva votato per Mussolini con il Partito Popolare o per Hitler con Zentrum. Non erano ancora i tempi della “guerra fredda”, ma Papa Pacelli preparava la scomunica (1949) del comunismo ateo. Tuttavia la Repubblica nel suo art. 1 viene “fondata sul lavoro” sulla base di un’intesa concorde presentata in assemblea da Fanfani. E’ un tema dossettiano, che “Pippo” (come lo chiamavano gli amici) svilupperà nei lavori della I sottocommissione lavoro. Dossetti, infatti, come La Pira e Moro, firmerà con Togliatti e Lelio Basso la formulazione sul lavoro che è, secondo le sue parole, diritto per essere uomini non nella naturalità dell’uomo, ma nell’esigenza di tutti di avere un lavoro, manuale o intellettuale, “che va remunerato per soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia“, espressione che figurerà (a firma Dossetti e Togliatti) nell’art. 36. In questo senso La Pira può dire che i lavori della sottocommissione erano “volti a far cambiare la struttura economica e sociale del Paese”. Fin dal 1945 (come ha scritto sull’Unità del 10 febbraio di quest’anno Pierluigi Castagnetti) Dossetti aveva manifestato il suo pensiero in materia con un articolo (pubblicato su “Reggio Democratica”) in cui si rallegrava per la vittoria laburista in Gran Bretagna contro “la caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi” dei conservatori: “un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana” che diventava “vittoria della solidarietà“.
Paolo Pombeni ha intitolato il suo recente libro su Dossetti “Un riformista cristiano”. Avrei aggiunto “radicale”. Perché il riformismo lui lo chiamava “rivoluzione cristiana” (“non possiamo rinunciare al sogno inteso come sogno politico di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro“). Forse anche “integrista”, nel convincimento che il cattolico ha il dovere di costruire la storia, ormai orientata a costruire un nuovo sistema democratico. Fu coautore dell’art. 7 per creare uno strumento di sblocco delle relazioni tra Chiesa e Stato esterni l’uno all’altro, anche se prese successivamente le distanze per l’insufficiente azione politica nella realizzazione dell’art. 8, complementare, secondo la sua visione della libertà religiosa, al Concordato. Era, d’altra parte. uno di quei cattolici che diffidava più dei socialisti (e dei laicisti sospetti massoni) che dei comunisti; che andava d’accordo con De Gasperi quando sosteneva l’autonomia delle istituzioni laiche anche davanti a Pio XII, non quando negoziava con gli Usa e aderiva al Patto Atlantico.
Comunque se ne andò dal partito e dal Parlamento nel 1951.
Si trasferì a Bologna, dove era arcivescovo Giacomo Lercaro, che lo indusse a presentarsi candidato alla carica di sindaco in competizione con il comunista Giuseppe Dozza, che vinse – secondo le analisi del “Mulino” – per il rigore con cui Dossetti sostenne la causa dei più svantaggiati prospettando interventi fiscali che consentissero maggiori diritti egualitari (la “dignitosa vita del lavoratore e della sua famiglia”). Ma la sua vera vocazione era già tutta spirituale: divenne prete e Lercaro, che lo aveva ordinato, lo condusse con sé al Concilio Vaticano II, dove fu al centro delle elaborazioni preparatorie, in particolare del grande tema teologico, rimasto incompiuto, della povertà (Lumen gentium, 8), che il cardinale di Bologna riteneva “decisivo” per la vita della chiesa e dei cristiani. La povertà fu anche, insieme con la pace (era in corso la guerra del Vietnam), il tema centrale dell’ultimo intervento di Lercaro e causa della rimozione nel 1968.
Dossetti, uomo di cultura e spiritualità esigenti, fondò in seguito il Centro di Documentazione (diventato oggi Fondazione per le scienze religiose) per dare vita a una comunità di ricerca. Di particolare rilievo le argomentazioni elaborate nel Centro da Dossetti e Alberigo contro la proposta di istituire una Lex Ecclesiae Fundamentalis, accolte da Paolo VI che pur era stato il proponente. Alberto Melloni diceva una settimana fa all’Accademia dei Lincei dove si commemorava Dossetti, che per lui la cultura soprannaturale era il paradigma per cambiare direzione di marcia della civiltà. Per dirlo con le parole dossettiane, è la prospettiva che produce “nuove linee di sblocco dei processi di crisi”. Ancora una volta un’espressione valida ancora per noi.
Una svolta fu la scelta del monachesimo e la fondazione della Piccola Famiglia dell’Annunziata; la particolare spiritualità della Terra Santa lo portò a vivere lunghi periodi di studio in Palestina, ancora una volta dalla parte più “povera”, anche di diritti di sopravvivenza civile e politica. I contatti con Bologna non si persero per questo e nel 1986, quando il Comune gli assegnò l’Archiginnasio d’oro, pronunciò un discorso importante per la sua storia “Per la vita della città” (che nell’intenzione originaria era “Eucaristia e città”) in cui rilevava la cupezza degli orizzonti se si diffonde la corruzione e insisteva sull’importanza della presenza della Chiesa nella città, come cooperatrice salvifica solo se sa restare nel limite di ciò che le è “proprio”.
Anche in Palestina manteneva la conoscenza degli eventi del mondo e, a maggior ragione, nazionali. Nel 1994, in una lunga commemorazione di Giuseppe Lazzati, sviluppò un’argomentazione ferma e preoccupata contro le trasformazioni minacciate dal governo di modificazione “ai diritti inviolabili, civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione“, e contro “qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario“. Si tratta di “oltrepassamenti (che) possono essere già più che impliciti nell’attuale governo per il modo della sua formazione, per la sua composizione, eri, suo programma e per la conflittualità latente …con il Capo dello Stato“. Fu il ben noto richiamo “Sentinella, a che punto siamo della notte?” indirizzato a richiamare con assoluto rigore ed esplicita denuncia la consapevolezza degli italiani nei confronti delle loro responsabilità politiche. Un appello che resta – ancora una volta – domanda inquietante per il buio che avvertiamo ancora intorno alle nostre istituzioni.